Alcuni giorni fa è stato pubblicato, come ogni anno, il rapporto di Reporter senza frontiere (Rsf) sulla libertà di stampa nel mondo (qui si può scaricare il documento). L’Italia, secondo il metodo di indagine dell’ong francese, non si sposta più di tanto nella classifica dei 179 Paesi considerati, risalendo dalla 61esima alle 57esima posizione. Non siamo quindi tra i 16 fortunati membri dell’Unione europea che si trovano stabilmente nela “top 30” della graduatoria. «Il modello europeo, tuttavia, si sta sfasciando -si legge nel report-. La cattiva legislazione osservata nel 2011 è proseguita, soprattutto in Italia, dove la diffamazione deve ancora essere depenalizzata e le istituzioni ripropongono pericolosamente “leggi bavaglio”. […] Si fanno inoltre sentire gli effetti della stagnazione degli introiti pubblicitari e dei tagli ai bilanci, che costantemente minano il modello economico».

Non si menzionano, ma probabilmente sono stati considerati e sono tra le cause del punteggio conquistato dall’Italia (26,11, dove a zero corrisponde un contesto ideale per la libertà di stampa e a 100 il suo opposto), altri problemi ben più radicati nel sistema informativo, ossia la concentrazione e la dipendenza da proventi pubblici. In Italia l’informazione è infatti in mano a pochi grandi gruppi editoriali, sempre gli stessi da molti anni, il che non gioca a favore del pluralismo. Internet ha scombinato le carte spostando gli equilibri tra carta e web, modificando le abitudini dei cittadini e aprendo nuove sfide per gli editori, sempre incerti sulla scelta tra contenuti gratuiti e a pagamento, e in cerca di introiti pubblicitari che si fanno complicati. Ma la verità è che questi pochi grandi gruppi, senza i finanziamenti pubblici, non sarebbero in grado di esistere. L’informazione italiana non è in grado di reggersi da sola, e questo, indipendentemente dalle effettive pressioni che essa riceve da rappresentanti della politica, la pone in una condizione di debolezza nei confronti di coloro che invece dal giornalismo dovrebbero essere continuamente controllati e messi nelle condizioni di rispondere delle proprie azioni.

Nell’indicatore di Rsf non può, per forza di cose, rientrare il fattore dell’“autocensura”, che molti giornalisti sono costretti a mettere in atto ogni giorno quando, per non andare incontro a stroncature da parte dei propri capi servizio, semplicemente rinunciano a parlare di un certo argomento. In merito poi alla questione della depenalizzazione del reato di diffamazione, siamo d’accordo solo in parte con Rsf, in quanto ci sembra una questione del tutto secondaria ed emersa solo nei mesi scorsi attorno a un caso specifico, quello di Alessandro Sallusti. Il giornalista ha fatto di tutto per arrivare all’applicazione della norma che prevede il carcere per il direttore reo di avere ospitato contenuti diffamatori sulla testata di cui è stato responsabile (allora Libero). Sarebbe infatti bastato rispettare il diritto di rettifica, restituendo così dignità e rispettabilità ai soggetti coinvolti, oppure patteggiare un risarcimento alla parte offesa, o ancora accettare le forme alternative alla detenzione proposte dal tribunale. Poi per carità, aboliamolo pure il carcere per diffamazione, una pena pecuniaria è più che sufficiente, e soprattutto si evita il rischio di trasformare in vittima chi agli arresti finisce alla fine di un processo in cui è stato individuato come colpevole. Teniamo alta la guardia sull’informazione in Italia, perché la situazione non è rosea, ma non facciamoci distrarre dai casi più acclamati, perché i problemi sono ben più strutturali. Ma anche questo, ahinoi, è un tranello in cui si può cadere a causa di una cattiva informazione.