Il ricorso al carcere è una delle soluzioni più spesso invocate per fare fronte alla commissione di reati. Questo presuppone che la detenzione in cella sia uno strumento valido per rendere più sicuro il Paese e rieducare i detenuti. Ma siamo sicuri che questa premessa sia vera? Un bel reportage pubblicato su La Stampa offre vari spunti di riflessione, soprattutto sul valore del lavoro in quanto mezzo per attuare la funzione rieducativa che il carcere dovrebbe avere. Non tanto il lavoro saltuario e non specializzato, che spesso è l’unica alternativa che si offre ai carcerati, bensì quello che passa per una formazione da ottenere mentre si sconta la pena.

Imparare un mestiere e fare esperienza lavorativa possono essere due fattori determinanti per infondere nelle persone l’idea di poter avere un ruolo nella società in maniera onesta e perfettamente legale, abbassando così drasticamente la possibilità che gli ex detenuti tornino a delinquere una volta scontata la pena. Purtroppo «I detenuti che svolgono attività qualificanti sono meno del 5 per cento del totale», scrive Andrea Malaguti nel suo articolo, in cui sono riportate anche le parole di Alessandro Scandurra dell’associazione Antigone: «La situazione è disastrosa. E fa impressione vedere che non esistono numeri ufficiali sulla recidiva. Significa che il Sistema ignora uno dei dati fondamentali legati alla funzione della pena».

Sfogliando il bel libro Abolire il carcere (Chiarelettere, 2015), scritto a quattro mani da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, si scopre qualche dettaglio in più sul tasso di recidiva e su come è stato ottenuto l’unico dato attendibile che attualmente si utilizza come riferimento per l’Italia. Il primo studio in tal senso è stato effettuato da Fabrizio Leonardi, direttore dell’Osservatorio delle misure alternative presso la direzione generale dell’esecuzione penale esterna del Ministero della giustizia, nel 2007. «L’indagine è stata effettuata su soggetti che, nel 1998, avevano finito di scontare una condanna in affidamento in prova al servizio sociale (una delle misure alternative al carcere previste dal nostro ordinamento, disciplinata dall’articolo 47 della legge 354 del 1975). Il campione scelto era composto da 11.336 persone e la ricerca mirava a consultare il casellario giudiziale al fine di trovare tracce di condanne successive al 1998 e fino al 2005. I risultati dello studio evidenziano che tra le persone di cui si è riuscito ad avere notizie tramite la consultazione del casellario centrale (8.817) i recidivi sono stati 1.677, pari al 19 per cento; se scorporiamo gli affidamenti di persone provenienti dalla libertà da quelli che hanno scontato la prima parte della pena in carcere, si scopre che la recidiva per chi non è mai stato rinchiuso in un penitenziario è ancora minore: 16 per cento contro 21 per cento. Qual è invece il destino di chi sconta la pena interamente in carcere? Lo stesso studio ci dice che quasi sette condannati su dieci (il 68,45 per cento) commettono un nuovo reato dopo avere scontato la pena in carcere».

Ecco quindi che in un unico importante studio si ottengono due importanti risultati, ossia da un lato fornire dati su un aspetto del sistema avvolto da una certa opacità (non esistono appunto dati ufficiali), dall’altro evidenziare l’enorme differenza di recidiva tra chi sconta la pena in carcere e chi ha accesso a misure alternative. Il libro di Manconi e colleghi parte dalla tesi che sia doveroso e utile per il benessere e la sicurezza della società abolire il carcere così come ce l’abbiamo in mente, ossia come “nuda reclusione” di persone, allontanate dalla società ma anche da qualsiasi stimolo a ravvedersi sul reato commesso e a puntare a un reinserimento nella sfera della legalità.

Il principio della reclusione come strumento principale in risposta alla commissione di reati penali è un frutto relativamente recente della nostra società, tanto che la Costituzione italiana sottolinea soprattutto l’obiettivo rieducativo, mentre è la legge ordinaria ad avere istituito il sistema carcerario così come lo conosciamo oggi: «Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l’idea che la risposta sanzionatoria dello Stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà per un determinato periodo di tempo».

La proposta “abolizionista” di una parte degli studiosi di giurisprudenza e sistema penitenziario non è solo una velleità da intellettuali, visto che l’alta recidiva italiana costa all’Italia tra i tre e i quattro miliardi all’anno, ed è dunque un fenomeno altamente penalizzante anche per le casse dello Stato. Bisogna infatti considerare il costo a persona della detenzione pura e semplice: «125 euro al giorno. Facendo un rapido calcolo, e moltiplicando questa cifra per i 62.536 detenuti disseminati nelle 206 carceri italiane al 31 dicembre 2013, per i 365 giorni dell’anno, scopriamo facilmente l’enormità della spesa che mediamente affrontiamo ogni anno: quasi tre miliardi di euro. […] Quello che salta subito agli occhi a una rapida analisi della ripartizione dei costi è la pochezza delle risorse destinate direttamente ai detenuti». I costi servono soprattutto a retribuire il personale carcerario e a coprire spese varie di funzionamento. È dunque un sistema che inghiotte risorse pubbliche, e assieme a esse vite umane che vengono prelevate dalla società e messe in luoghi che non fanno che aggravare le loro condizioni psico-fisiche: «Ben 2.368 persone sono morte nelle carceri italiane negli ultimi quindici anni: quasi 160 ogni anno, di cui almeno un terzo per propria scelta». Il carcere non è sempre esistito, dunque è logico pensare che non probabilmente non esisterà per sempre.

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