Nel parlare di disastro in Italia, spesso vi si affianca l’aggettivo “naturale”, suggerendo così che il responsabile principale delle sue conseguenze sia appunto l’ambiente e gli eventi che “naturalmente” vi accadono. Questo porta a non considerare la componente umana rispetto alle situazioni di rischio distribuite sul nostro territorio, impedendo ai cittadini di comprendere a fondo le dinamiche che precedono e seguono gli eventi naturali. Nel hanno scritto qualche giorno fa sul blog Il lavoro culturale due autori che hanno approfondito questi temi, Giuseppe Forino e Fabio Carnelli, prendendo spunto dal Rapporto sullo stato del rischio nel territorio italiano 2017, realizzato da Cresme (Centro ricerche economiche e sociali del mercato dell’edilizia) con il Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori. Tale rapporto presenta vari punti di debolezza, secondo i due ricercatori, che vengono ripresi e discussi nel corso dell’articolo. Evitando di entrare negli aspetti più tecnici tra quelli contestati, i rilievi fatti sono comunque utili a capire come mai in Italia certe cose sembrano accadere sempre uguali a se stesse, nonostante gli appelli all’urgenza di molte situazioni, e nonostante il clamore e le reazioni appassionate che certi disastri generano nelle persone e nei rappresentanti istituzionali.
Innanzitutto, bisogna capire che il concetto di “disastro” è molto più ampio di come siamo abituati a intenderlo, e quando ne parliamo omettiamo di considerare alcuni aspetti del discorso: «I disastri – si legge sul blog – sono dei processi – lenti o repentini – che si situano nell’intersezione fra “natura e società”, risultanti dell’interazione tra un agente distruttivo (come un terremoto, uno tsunami, un uragano o una pioggia torrenziale) e il contesto socio-culturale e ambientale su cui esso impatta». Proprio questo secondo aspetto è quello che ci dimentichiamo spesso: il terremoto, l’alluvione o qualunque altro evento, ha effetti diversi a seconda del contesto su cui si abbatte, ed è quindi nel suo rapporto con l’uomo che esso arriva (o non arriva) a definirsi “disastro”. «È la presenza di variabili umane che interagiscono con un processo naturale a creare il disastro, manifestandosi esattamente “nel punto di connessione tra società, tecnologia ed ambiente, all’intersezione della pratica umana e della materialità ambientale” (Cfr. Gugg, 2017). Inoltre, i processi che alterano gli elementi naturali sono spesso peggiorati o prodotti dall’uomo: pensiamo all’immissione di inquinanti nel suolo e nelle acque o alla distruzione di versanti, o a case costruite senza criteri antisismici o troppo vicine a un fiume. In questo senso, è come se la natura facesse semplicemente il suo lavoro: è l’uomo che, con la sua presenza, contribuisce, con azioni o valutazioni poco ponderate e irrispettose, a esacerbare il potenziale di un evento naturale».
Qui gli autori introducono il concetto di vulnerabilità, indispensabile per definire l’entità del rischio: «Fattori preponderanti nella creazione del rischio sono legati alle diseguaglianze perpetrate in base a reddito, età, genere, etnia, religione, classe sociale, condizione lavorativa, dis(abilità)». Tali vulnerabilità si riverberano sulla popolazione e sulle sue scelte, accentuando comportamenti che possono indebolire ulteriormente il territorio colpito, dal punto di vista sociale ed economico: «Recenti ricerche hanno dimostrato come la gestione del post-sisma aquilano abbia alimentato processi di dispersione urbana che hanno agito come acceleratori di vulnerabilità. Allo stesso modo, a Mirandola (nelle aree colpite dal sisma emiliano del 2012) è stato evidenziato dai ricercatori Fabio Carnelli e Ivan Frigerio come i richiedenti asilo siano stati quelli più “colpiti” (in termini di danno e di assistenza) sia dal sisma sia dalla gestione dello stesso, vittime e non complici di un circolo vizioso di vulnerabilità».
Il disastro è dunque anche il prodotto di una cattiva gestione successiva all’evento che innesca la situazione di emergenza. Se ci si concentra solo sulla dimensione di manutenzione e gestione del territorio, si perde di vista l’aspetto “sociale” del disastro e della valutazione del rischio. «Se una politica di manutenzione del territorio è essenziale e urgente per la riduzione del rischio – conclude l’articolo –, occorre affrontare in maniera parallela il rischio alla luce dei processi di vulnerabilizzazione esistenti e in atto a tutti i livelli, dalla dimensione individuale a quella collettiva, dal sapere scientifico a quello tecnico, dalla giurisprudenza e dalla comunicazione pubblica e istituzionale al tessuto edilizio alle relazioni urbane, dai processi educativi alle politiche, dalla comunicazione alla partecipazione per condividere il rischio come processo culturale in un’arena dialettica di significati e pratiche».
(Foto di Lorenzo Bollettini su Unsplash)