Sono da poco stati ripubblicati gli scritti di Franco Basaglia (Scritti – 1953-1980, Il Saggiatore). Proponiamo di seguito il testo di un intervento tenuto da Basaglia nel 1964 al Congresso Internazionale di Psichiatria Sociale di Londra. Il tema è: La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione.
Nel 1925, un manifesto di artisti francesi che si firmavano «la révolution surréaliste», indirizzato ai direttori dei manicomi, così concludeva: «Domattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza».
Quarant’anni dopo – legati, come gran parte dei paesi europei, ad una legge antica ancora incerta fra l’assistenza e la sicurezza, la pietà e la paura – la situazione non è di molto mutata: limiti forzati, burocrazia, autoritarismo regolano la vita degli internati per i quali già Pinel aveva clamorosamente reclamato il diritto alla libertà. Ma la libertà di cui parlava Pinel era stata concessa in uno spazio chiuso, messa nelle mani del legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelarla. Per questo, più di due secoli dopo lo spettacolare scioglimento delle catene, regole forzate e mortificazioni segnano ancora il ritmo della vita dei ricoveri, richiedendone l’urgente soluzione con formule che tengano finalmente conto dell’uomo nel suo libero porsi nel mondo. Lo psichiatra sembra, infatti, riscoprire solo oggi che il primo passo verso la cura del malato è il ritorno alla libertà di cui finora egli stesso lo aveva privato. La necessità di un regime, di un sistema nella complessa organizzazione dello spazio chiuso nel quale il malato mentale è stato isolato per secoli, richiedeva al medico il solo ruolo di sorvegliante, di tutore interno, di moderatore degli eccessi cui la malattia poteva portare: il valore del sistema superava quello dell’oggetto delle sue cure. Ma oggi lo psichiatra si rende conto che i primi passi verso l’«apertura» del manicomio producono nel malato una graduale trasformazione del suo porsi, del suo rapporto con la malattia e col mondo, della sua prospettiva delle cose, ristretta e rimpicciolita non solo dalla condizione morbosa ma dalla lunga ospedalizzazione. Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (risultato della malattia che Burton chiama «institutional neurosis» e che chiamerei più semplicemente istituzionalizzazione); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto dalla malattia e dal ritmo dell’internamento.
L’assenza di ogni progetto, la perdita di un futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita ed organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo. La nuova recluta, al momento del suo ingresso nel complesso sistema del ricovero, deve lasciarsi alle spalle ogni legame che non può più mantenere, ogni progetto che non può più attuare, la vita che non può vivere perché l’ospedale stesso gli impedisce di continuare a porsi in situazione, di proiettarsi nel futuro, inibendogli la «conquista» della propria soggettività. Il malato mentale, chiuso nello spazio angusto della sua individualità perduta, oppresso dai limiti impostigli dalla malattia, è spinto dal potere istituzionalizzante del ricovero ad oggettivarsi nelle regole stesse che lo determinano, in un processo di rimpicciolimento e di restringimento di sé che – originariamente sovrapposto alla malattia – non è sempre reversibile. Si potrebbe dire tuttavia che ogni organizzazione di carattere collettivistico (grandi complessi industriali ad esempio), pur non presentando il clima istituzionalizzante degli spazi chiusi (manicomi, carceri, campi di concentramento, istituti religiosi, collegi) viola, in un certo senso, il progetto individuale, lasciando però un margine personale alla vita di relazione di ciascun membro. È questo margine che viene, invece, deliberatamente cancellato dal potere dell’istituto, perché è proprio l’iniziativa personale («malata» o non) che può turbare l’ordine e la regola della complessa organizzazione, minandone quindi l’efficienza. Così, quando il malato, alienato dalla malattia, dalla perdita dei rapporti personali con l’altro e quindi dalla perdita di sé, entra nel ricovero, invece di trovare qui un luogo dove potersi liberare dall’incombere degli altri su di sé, dove poter ricostruire il suo mondo personale, trova nuove regole, nuove strutture che lo spingono ad oggettivarsi sempre più fino ad identificarsi in esse. Ciò perché le conseguenze della pazzia, che sono il centro delle apprensioni dei nostri legislatori, superano il valore del malato mentale in quanto uomo.
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(Foto di Davide Folloni su flickr)