di Federico Caruso

Sono giorni che in Italia si discute del “braccialetto elettronico” brevettato da Amazon. Il nuovo dispositivo servirebbe per aiutare i dipendenti nella ricerca della merce da muovere nei magazzini, ma ha generato perplessità e polemiche perché visto come potenziale strumento di controllo dei lavoratori. Proviamo qui a mettere a fuoco alcuni spunti di riflessione. È comprensibile e condivisibile il moto di indignazione che colpisce ognuno di noi ogni volta che si accostano fattori che possono determinare un eccessivo controllo del lavoro. Tuttavia, uno sguardo più ampio potrebbe aiutare a vedere le cose in altra prospettiva. Non necessariamente meno preoccupante, ma se non altro meno semplicistica rispetto a come l’episodio è stato trattato e strumentalizzato in questi giorni, soprattutto nel dibattito politico.

Innanzitutto bisogna considerare che da alcuni anni siamo già tutti tracciabili, e spesso volontariamente. I telefoni che teniamo in tasca o in borsa sono sempre in grado di fornire la nostra posizione, anche da spenti. Ovviamente non si tratta di dati pubblici, perché coperti dalla normativa sulla privacy (che varia da Paese a Paese), ma si tratta comunque di informazioni che circolano nelle reti informatiche, passibili dunque di spionaggio. La volontarietà si attua quando invece utilizziamo applicazioni del telefono che ci chiedono l’autorizzazione a essere tracciati (per esempio quelle che molti usano quando vanno a correre). A quel punto è molto più difficile che i dati non circolano presso altre compagnie interessate a conoscere le abitudini dei cittadini/consumatori. Di questo si è parlato nei giorni scorsi perché gli utenti di Strava, una app utilizzata da molti soldati per tracciare e comparare le loro performance, ha contribuito a svelare la posizione, e i movimenti del personale in servizio, di alcune basi militari statunitensi in Iraq e in Siria. In ogni caso, il tracciamento dei nostri comportamenti è un aspetto ormai molto importante per l’economia mondiale.

C’è poi da dire che Amazon (come molte altre compagnie) attua già un controllo indiretto sui propri dipendenti, attraverso obiettivi di produzione molto impegnativi da raggiungere. Un’inchiesta di BBC svelava già nel 2016 a quali ritmi erano sottoposti i dipendenti (in quel caso si riferiva agli addetti alle consegne casa per casa). «Amazon non tiene conto di alcun momento di riposo – spiegava uno dei reporter sotto copertura –, né di pause per andare in bagno, così un autista mi ha detto che una volta ha dovuto fare i propri bisogni in una borsa, dentro il furgone, per la disperazione. Non voleva restare indietro andando in cerca di un bagno». Non c’è dunque bisogno di braccialetti per esercitare forme di controllo sui dipendenti, ci sono già tecniche molto più raffinate e rodate.

Una lettura bilanciata e interessante è quella data da Stefano Bartezzaghi su Repubblica, anche se verso la fine dell’articolo cade in un ragionamento che parte da premesse non del tutto esatte. Egli paragona il nuovo brevetto (depositato in realtà nel 2016, ma approvato in questi giorni) alla “pistola di Cechov”: «Se nel primo atto in scena si vede una pistola, quella pistola dovrà sparare entro il terzo. Così tutto ciò che si può fare, con una macchina o una tecnologia, prima o poi si farà. Per tenerne conto non occorre essere Cassandre, né vedere dietro a ogni tecnologia l’ombra di Frankenstein». Questo è vero solo in parte, visto che le aziende normalmente depositano molti brevetti anche solo per arrivare in anticipo sulla concorrenza. Molto spesso, di questi brevetti non se ne fa nulla e restano solo parte di una strategia difensiva tutta votata all’“attacco preventivo”. Non è detto dunque che il braccialetto si faccia, e la pistola potrebbe abbandonare la scena con tutte le pallottole nel tamburo, perché non siamo a teatro.

Una riflessione (e forse una preoccupazione) per il futuro del lavoro potrebbe e dovrebbe nascere invece dal fatto che si stia facendo così tanta ricerca per l’automazione nei magazzini. Quel braccialetto (o parte di quella tecnologia) potrebbe non incontrare mai il braccio di un essere umano, bensì finire nel software di un robot in grado di fare ciò che faceva il lavoratore, ma appunto senza necessità di riposo, pause per andare ai servizi, ecc. La paura delle “macchine che sostituiranno i lavoratori” esiste più o meno dalla rivoluzione industriale. Si tratta di un lungo processo cominciato allora, e ben lontano dall’essere compiuto o rallentato. Se già oggi ci sono molti meno operai di un tempo, perché le macchine fanno sempre più cose al posto loro, dobbiamo prepararci al fatto che un giorno potrebbero non essercene più, di operai. Allora dovremo chiederci se ha ancora senso parlare, in Italia, di “Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. E dovremo forse rimettere in discussione idee (come il reddito di cittadinanza) che contraddicono il fondamento dell’articolo 1 della Costituzione.

(Foto di Carl Revell su flickr)