Aggiornamento: la storia si è un po’ sgonfiata rispetto a come è stata raccontata ieri dai principali siti di notizie. Ci scusiamo per aver creduto alle prime ricostruzioni, suffragate dalle dichiarazioni della diplomazia italiana in Inghilterra, ma il resto del nostro articolo sta in piedi lo stesso.
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Ieri, per qualche ora, l’Italia si è unita in un coro d’indignazione per un atto di discriminazione da parte di alcune scuole del Regno Unito, che all’atto dell’iscrizione di studenti non autoctoni chiedevano agli italiani di specificare se fossero “Italian Napoletan”, “Italian Sicilian”, o “Italian Any Other”. Anche chi non ha dimestichezza con l’inglese non dovrebbe fare fatica a comprendere quanto richiesto. Nella nota inviata al Foreign Office da parte dell’ambasciata italiana si faceva notare, con umorismo più che mai british, che «l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». A qualche ora dalla protesta formale è arrivata una telefonata che preannunciava delle scuse scritte, in cui si assicuravano i nostri diplomatici sul fatto che i moduli sarebbero stati corretti. La maldestra distinzione era dovuta, secondo l’ambasciatore italiano Pasquale Terracciano, a un’eventuale esigenza di sostegno linguistico. Se questa motivazione dovesse trovare conferma nella replica dell’ufficio britannico, saremmo in uno di quei casi in cui “la pezza è peggio del buco”, perché si formalizzerebbe una discriminazione di partenza su chi sa meno l’inglese a seconda della zona d’Italia in cui è nato. Mentre scriviamo questo articolo però la nota non è ancora stata trasmessa (o comunque le principali testate online non ne parlano), dunque resta viva la speranza che si tratti solo di un’opinione personale di Terracciano. È la Brexit, bellezza.
Forse, o magari neanche la Brexit c’entra nulla. In ogni caso, l’Italia ha vissuto oggi collettivamente una sensazione di discriminazione che forse non percepivamo da molto tempo nei nostri confronti “in quanto italiani”. Convinti che il nostro regalare al mondo i nostri “cervelli” sia motivo d’orgoglio (e di disappunto, perché in troppi partono senza più rientrare), la reazione che traspare (almeno per come è stata trattata la notizia dalla stampa italiana) è “ma come si permettono? Gli italiani all’estero sono una risorsa, non un problema o un pericolo”. Peccato che quando si parla invece di stranieri che arrivano in Italia l’attenzione si concentri proprio sui concetti di “problema” e “pericolo”, e chi per caso osi pronunciare la parola “risorsa” venga tacciato di buonismo. Un epiteto, questo, che ormai definisce intere categorie di persone che hanno l’ardire, semplicemente, di non rassegnarsi a vedere il mondo come una trincea i cui confini vanno difesi a ogni costo, anche se dall’altra parte non c’è un esercito armato fino ai denti, ma persone come noi, che però sono nate altrove. Qualche giorno fa Massimo Cirri ha pubblicato un bell’articolo sul suo blog per il Post, intitolato “Che fine hanno fatto gli albanesi?”.
Come in molti ricorderanno, negli anni ’90 la crisi balcanica portò migliaia di albanesi a imbarcarsi verso le coste italiane, anche clandestinamente. Da questa parte, dopo le operazioni di accoglienza e soccorso in cui l’Italia eccellere tuttora, si sono ritrovati in una società in cui all’improvviso avevano la colpa di tutto. “Dagli all’albanese” era il messaggio sottinteso a moltissimi episodi di cronaca in cui al cittadino italiano veniva data la possibilità di sollevarsi la coscienza da tutto il male del Paese, tanto c’era sempre un albanese a cui dare la colpa. Oggi degli albanesi non si parla più, sono spariti dalle cronache, dai discorsi da bar, dai nostri pensieri. Dove sono finiti? Semplice, alcuni sono tornati a casa o sono andati altrove, altri sono diventati italiani o in qualche modo “si sono integrati”. I cittadini albanesi residenti in Italia sono oggi 482.959, e il loro numero continua a diminuire, non perché se ne vanno, ma perché molti di loro nel tempo sono diventati cittadini italiani, e dunque non rientrano più in quel conteggio. Quando hanno smesso di “essere un problema?”. «Quando – semplicemente – sono cambiate alcune leggi e andare e venire dall’Albania all’Italia è diventata una cosa un po’ più normale – spiega Cirri –. Che si poteva fare comprando un biglietto e salendo su un traghetto. Una nave normale. In cabina o posto ponte. Non una nave sommersa di corpi e a rischio di affondare. Perché affondavano anche le navi degli albanesi. E morivano, gli albanesi. […] l’integrazione più difficile dei nostri giorni, la possibilità di integrazione di chi arriva da un altro luogo cambia un po’, smette di essere un problema, quando dai luoghi si può andare e venire».
Prima di pensare a copiare la Brexit per sentirci più protetti dalle “invasioni” che certa politica ci mette davanti agli occhi, occorre forse recuperare proprio il concetto di risorsa migratoria, che è ben riassunto in un post pubblicato sul blog Populismi. Tra i vari punti messi in fila nel pezzo di Alessandri Lanni ne citiamo alcuni (i dati provengono da uno studio della Fondazione Leone Moressa sull’economia della migrazione): «Gli stranieri che lavorano in Italia producono 127 miliardi di ricchezza, paragonabile al fatturato del gruppo Fiat, o al valore aggiunto prodotto dall’industria automobilistica tedesca. […] Il contributo economico dell’immigrazione si traduce in quasi 11 miliardi di contributi previdenziali pagati ogni anno, in 7 miliardi di Irpef versata, in oltre 550 mila imprese straniere che producono ogni anno 96 miliardi di valore aggiunto. […] La spesa destinata agli immigrati è pari al 2% della spesa pubblica italiana. Nel 2014 i contributi previdenziali hanno raggiunto quota 10,9 miliardi. Ripartendo il volume complessivo per i redditi da pensioni medi, si può calcolare che i contributi dei lavoratori stranieri equivalgono a 640 mila pensioni italiane. […] Le aziende condotte da immigrati contribuiscono, con 96 miliardi di euro, alla creazione del 6,7% del Valore Aggiunto nazionale». Ma che c’entra, non possono essere numeri reali, saranno statistiche buoniste.
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