Lo scrittore Giorgio Fontana ha pubblicato un post sul blog Il Tascabile, in cui racconta la sua esperienza di studente preso di mira dai bulli ai tempi delle medie (ora Fontana ha 36 anni). Oltre al valore della testimonianza in sé, visto che si tratta di un trauma che non molti sono disposti a condividere pubblicamente, l’articolo è interessante perché propone alcune riflessioni in merito alla società. Se infatti molti di noi sono stati interessati da questo fenomeno durante l’adolescenza, come bulli o come vittime di bullismo, una volta cresciuti la tendenza è a dimenticarsene, a fare come se niente fosse accaduto. Eppure quel tipo di esperienza di prevaricazione, o di ingiusta punizione, lascia probabilmente una traccia indelebile nell’idea dei rapporti umani che poi l’adolescente, una volta cresciuto, si formerà. C’è inoltre un terzo attore in questo gioco crudele: lo spettatore.
Spesso nelle dinamiche di bullismo c’è qualcuno che assiste agli atti di violenza fisica o psicologica, come testimone diretto o grazie a confidenze. Questi può approvare o disapprovare ciò che avviene, ma raramente nel primo caso si assiste a un intervento diretto per interrompere le angherie. Anche chi senta di non essere interessato dal problema, dovrebbe quindi provare a pensare alle proprie esperienze scolastiche o giovanili, e chiedersi se qualche volta non abbia per caso assistito ad atti di bullismo, tacendo. È la categoria di persone che Fontana sembra temere di più, in quanto inconsapevoli della propria corresponsabilità nella reiterazione della violenza. «Ero lasciato solo da un’ampia zona grigia che non voleva avere nulla a che fare né con me né con loro – scrive Fontana –. Non li approvava; ma non aveva il coraggio di opporsi a loro. Li odiavo, ma riuscivo a capirli: nei loro panni cosa avrei fatto? Si pensa sempre che l’arduo compito di difendere il debole tocchi a qualcun altro. Magari poi interverremmo anche noi, ma è molto difficile fare il primo passo. […] un silenzio che contribuiva a far sorgere dentro di me un’idea: forse, dopotutto, me lo merito. Forse la catena alimentare funziona così».
In questa accettazione si nasconde anche la possibilità che la vittima cerchi a sua volta, tempo dopo o in altri contesti, qualcuno da bullizzare. Inconsapevolmente si replica il modello subito da piccoli, cercando qualcuno su cui scaricare il dolore adolescenziale o infantile: ci si dice «Per tutta la vita ho subito, ora tocca a me: e così facendo, si perpetra la stessa struttura che ti ha fatto soffrire — solo a parti invertite. Dopotutto capiterà di incontrare qualcuno di più fragile di te, nella vita. Si tratta solo di attendere e trasformarsi in lupo dopo aver recitato la parte dell’agnello». Quello del bullismo è un modello che si riproduce nella vita di ogni giorno, anche in quella degli adulti. Basta un piccolo squilibrio di poteri per cadere in dinamiche di questo tipo. Può essere una questione di ruoli professionali o sociali, di genere, di età, di provenienza geografica, di reddito. Sono tutte differenze che, se finiamo col dare loro troppa importanza, possono farci cadere nella trappola del bullismo, come vittime o carnefici. «Relegare il bullismo alle sue manifestazioni infantili è dimenticare come persone adulte psicologicamente o socialmente più deboli debbano confrontarsi ogni giorno con dei bulli nel mondo delle relazioni, delle professioni, della strada. Una donna con un uomo che la molesta. Un lavoratore che viene ricattato dal suo capo. Un’ondata di commenti inferociti senza motivo su un post. Il razzismo consapevole e quello inconsapevole. In tutti questi casi, il minimo comune denominatore non è tanto l’esistenza di singoli esseri umani corrotti, quanto di uno sfondo di silenziosa accettazione; una pigrizia morale, per così dire».
Il caso del produttore cinematografico statunitense Harvey Weinstein, in questi giorni, sta facendo emergere il problema delle molestie subite dalle donne nel corso della loro vita. Si tratta di un problema che ha una sua specificità e che non può essere assimilato al bullismo, sia chiaro. Tuttavia in esso compaiono molti elementi del bullismo, su tutti la rete di omertà che spesso si crea intorno alle molestie. Non che tutti sapessero dei casi specifici che stanno emergendo e tacessero. In molti però sono consapevoli del fatto che cose come quelle denunciate succedono con una certa frequenza in certi ambienti. Responsabilità di chi non è colpito direttamente dal fenomeno è creare le condizioni (psicologiche, giuridiche, ecc.) affinché le denunce siano più tempestive. Così come il minore vittima di bullismo non sarà portato a denunciare se il mondo intorno a lui condanna la debolezza fisica o psicologica («non sarai una femminuccia?», e altre frasi fatte del genere), allo stesso modo le donne si sentiranno poco legittimate a smascherare il molestatore se intorno a loro si crea un clima di scarsa fiducia o, peggio ancora, una tendenza a minimizzare («che sarà mai una pacca sul sedere?», e altre sciocchezze).
L’unico modo per cominciare a scardinare questo sistema è intervenire: non appellarsi sempre al meccanismo della delega, ma agire contestualmente per fermare la violenza. Dare un segnale, all’aggressore come alla vittima, che quella violenza non è accettabile. Poi si potrà allargare il discorso e rivolgersi a chi è chiamato ad arginare il fenomeno nel suo complesso. Ma il singolo caso, la singola situazione, talvolta ci chiamano all’azione. Come? «Evitando di dire “Non importa chi ha cominciato”. Analizzando sempre il contesto dove queste violenze si esercitano, e cercando di lavorare sul contesto per intero e non sul singolo caso. Discutendo e parlando. Reagendo, se è il caso».
(Foto di Akhilesh Ravishankar su flickr)