«Per me il calcio non è mai stato una questione di soldi ma di amicizia, di divertimento. Un tempo l’unica differenza tra me e te era che io giocavo a calcio e tu no. Ora invece io sono un calciatore, guadagno tanti soldi, sono una superstar e tu invece sei nessuno». Le parole, pesanti come sassi, sono di Luther Blissett, il calciatore di origini giamaicane che giocò qualche partita nel Milan dell’allora presidente Farina nel 1983, prima di essere rispedito al mittente. Non riusciva a esprimersi: troppo a vocazione difensiva quel Milan rispetto alla formazione inglese con cui aveva giocato fino a quel momento, il Watford. Ma al di là degli aspetti tecnici, ciò che importa è la testimonianza di un ex giocatore, oggi 55enne, che può parlare con serenità di quegli anni, perché il calcio non gli ha mai dato la ricchezza, nessuno l’ha mai messo su un piedistallo riempiendogli le tasche di soldi e la testa di egocentrismo.
Colpiscono queste parole proprio in questi giorni di calcio mercato in cui, volenti o nolenti, siamo costretti a seguire i “colpi” estivi delle grandi società. L’ultimo affondo è stato quello del Napoli, che con 37 milioni di euro, «più 3 di bonus variabili», si aggiudica l’attaccante argentino Gonzalo Higuain, che guadagnerà 6 milioni di euro all’anno, uno in più di quanto guadagnava nel Real Madrid. Dateci pure dei sempliciotti, dei moralisti, ma forse è venuto il momento in cui l’Europa della recessione, della crisi finanziaria, dei dettami del Fondo monetario internazionale, si dia una calmata. Blissett diceva che per lui è stato soprattutto un gioco: è chiaro che si tratta di un eufemismo, giocare nella massima divisione inglese o italiana è anche un lavoro, e non c’è niente di male. Ma perché uno sport che in teoria, in un mondo ideale, è organizzato in tornei per intrattenere le famiglie che alla domenica vanno allo stadio, deve muovere una quantità di denaro così esagerata? Per mantenere alto il livello, si dirà. Ma i grandi campioni di un tempo, a guardarli oggi, lasciano ancora a bocca aperta, anche se si trattava di un calcio più lento, meno atletico e anzi più divertente.
È anche questo uno specchio del nostro tempo, in cui tutto dev’essere super veloce, spettacolare, muscolare, con i fuochi d’artificio più luminosi e rumorosi possibile, altrimenti ci annoiamo. Anzi, nonostante tutto qualcuno che comunque si annoia c’è, come si può evincere dai numerosi processi in corso ai danni di giocatori che si sono messi in un giro di scommesse che ha dell’incredibile. Una forma estrema di ludopatia che sembra aver portato alcuni calciatori ad adoperarsi per orientare il risultato delle partite in modo da favorire qualcuno, e quindi guadagnarci qualcosa. Certo, si potrebbe dire che se guadagnassero meno, forse i giocatori farebbero ancora più scommesse, per compensare. Ma in questa rincorsa c’è una tendenza alla devianza che non sembra poter essere sconfitta aggiungendo zeri agli stipendi. E ancora una volta, assieme a talent show e concorsi vari, passa l’idea che è sempre meglio essere una superstar che un normale cittadino dedito ad attività su cui i riflettori della notorietà non si accendono. Ognuno la pensi come vuole, ma per noi resta il fatto che, anche in questo, traspare la tendenza generalizzata a vivere al di sopra delle proprie possibilità, e un calcio più morigerato non farebbe male a nessuno, anzi.