Mentre va migliorando il problema del sovraffollamento in carcere, occorre tenere alta l’attenzione sulle altre questioni importanti che riguardano la detenzione: su tutte il lavoro. Questo dovrebbe essere infatti un’opportunità di riabilitazione del detenuto, non un’ulteriore punizione. Ne consegue che, se la paga oraria è troppo bassa, lo diventa anche la dignità del lavoro, che quindi perde il suo carattere di riscatto e di progressivo rientro nell’universo della legalità. Non è solo un ragionamento logico, è un fatto accertato, come scrive Diana Cavalcoli sul Corriere: «L’inserimento lavorativo consente infatti l’abbattimento del tasso di recidiva dei condannati, che passa dal 78 per cento al 10. Il che si tradurrebbe in un risparmio per le casse dello Stato e in un importante passo avanti per la gestione delle carceri italiane».
Attualmente, secondo quanto pubblicato da Carte Bollate, periodico d’informazione del carcere di Milano-Bollate, la paga oraria media per un carcerato è di 2 euro e cinquanta centesimi, cioè poco, pochissimo. Il che non è solo un problema di per sé, ma crea delle difficoltà molto pratiche legate al costo della vita in carcere, che va aumentando. Chi infatti pensasse che essere detenuti equivalga a essere mantenuti al 100 per cento dallo Stato si sbaglia. Ogni detenuto (salvo eccezioni in casi particolari) è tenuto a pagare una quota di mantenimento, che dal 7 agosto 2015 è più che raddoppiata. Con un decreto ministeriale, la quota è stata portata a 3,62 euro al giorno (108,60 euro al mese). Parallelamente, però, non è stato adeguato il livello di retribuzione dei carcerati, che quindi ha subito una svalutazione del 25 per cento (la quota di mantenimento viene scalata direttamente dalla busta paga del lavoratore). «Accade così – spiega Cavalcoli – che la “mercede” del personale addetto alle pulizie passi da 220 euro netti mensili a 150. Una svalutazione del lavoro carcerario in contrasto con l’idea che proprio un impiego e un salario dignitoso possano favorire la riabilitazione dei detenuti».
Un po’ di numeri per capire la situazione del lavoro carcerario in Italia: «Secondo il report degli Stati generali dell’esecuzione Penale nel 2014 hanno lavorato 14.450 detenuti, circa il 27 per cento del totale. […] L’85 per cento dei lavoratori è stato impiegato dall’Amministrazione penitenziaria e solo 2.323 detenuti hanno prestato servizi per privati. Tra questi il 46 per cento ha lavorato all’interno del carcere, il 27 per cento all’esterno e il 25 per cento in semilibertà. La maggior parte del lavoro penitenziario è quindi costituito da “servizi d’istituto” come la manutenzione delle strutture e la pulizia dei reparti».
Uno dei problemi da risolvere è la scarsità di posti di lavoro disponibili (circa 4mila, contro 12mila detenuti che avrebbero titolo ad accedervi), causata da un taglio dei fondi concessi dallo Stato per questa voce di bilancio: dal 1991 al 2014 è stata tagliata del 26 per cento, passando da 61 a 45 milioni di euro. «Ciò nonostante – si legge nel report – nello stesso arco temporale il numero dei lavoratori-detenuti è rimasto quasi lo stesso».
Uno degli obiettivi in ottica di riabilitazione è portare il lavoro fuori dalle mura carcerarie. Per questo, nel 2000 è stata votata la cosiddetta “legge Smuraglia”, che introduce sgravi fiscali (fino a 700 euro al mese) per le aziende che assumono (per un periodo di tempo di almeno 30 giorni) detenuti o internati per svolgere lavori o attività formative. La misura ha dato qualche buon risultato, ma si deve ancora fare molto per aumentare il numero di lavoratori che restino impiegati anche dopo la fine del periodo previsto dalla legge per gli sgravi fiscali. «Nel 2014 appena 500 detenuti sono stati assunti dalle cooperative. Così, scontata la pena, l’ex-detenuto rientra in quel circolo vizioso, fatto di precarietà e scarse prospettive, che può portare alla recidiva di reato». La concretezza di un’opportunità di lavoro e di vita nella legalità è forse il miglior antidoto alla reiterazione del reato.
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