Nelle scorse settimane ha fatto discutere il suicidio avvenuto in carcere di Giacomo Trimarco, che aveva 21 anni e che non doveva trovarsi in carcere. Da otto mesi infatti era stato assegnato a una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ma il posto per lui non c’era e quindi era stato “temporaneamente” trattenuto in carcere.
Le Rems sono istituti di sicurezza che, a partire da una riforma del 2014, hanno progressivamente sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Purtroppo, come rilevavamo nei giorni scorsi parlando di bambini in carcere, le leggi, anche quelle buone, diventano inutili se non sono accompagnate da strutture e investimenti adeguati. Quello della chiusura degli Opg è stato un processo importante, che abbiamo seguito e raccontato negli anni su ZeroNegativo. Alla loro scomparsa però non è seguita la piena attuazione di quanto previsto dalla legge del 2014, ovvero l’allestimento di un numero adeguato di strutture, le Rems, alternative all’istituzionalizzazione delle persone con problemi psichiatrici. Oggi in totale le Rems sono 36, e secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ci sono almeno 750 detenuti in lista d’attesa per entrarvi, con un tempo medio di attesa di 304 giorni (ma in regioni come Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Lazio l’attesa arriva fino a 458 giorni). L’Italia è stata condannata più volta dalla Corte europea per violazione dei diritti umani in carcere: l’ultima a gennaio di quest’anno per «violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta trattamenti inumani e degradanti», proprio in riferimento alle Rems. Ma se da un lato i problemi maggiori denunciati in questi anni hanno riguardato il sovraffollamento, fenomeno endemico del nostro sistema carcerario, ad esso si aggiunge il fatto che centinaia di persone si trovano nella situazione di Giacomo Trimarco, una situazione che mette in pericolo loro stessi e chi sta loro intorno.
Il punto non è solo aumentare i posti disponibili nelle Rems, ma il fatto che a queste ultime dovrebbero essere destinati solo detenuti con disturbi psichici caratterizzati da “pericolosità sociale” e solo quando nessun’altra opzione è possibile. Un articolo di Giovanna Del Giudice sull’Espresso racconta che in un rapporto presentato al Parlamento dal Ministero della giustizia nel 2014 si diceva che, sugli 846 internati negli Opg, solo 70 conservavano la condizione di “pericolosità sociale” e non erano quindi dimissibili. È quindi molto probabile che oggi il primo aspetto su cui lavorare sia la composizione di quella lista d’attesa di 750 persone (si tratta di una stima, il numero esatto è difficile da calcolare). Le Rems dovrebbero inoltre essere strutture transitorie, mentre ci sono persone “condannate” a trascorrervi anni.
«Appare evidente – scrive Del Giudice – che parte della magistratura rimane ancorata a posizioni che si rifanno ad una psichiatria custodialistica che si vuole asservita alla giustizia; che i periti scelti sono troppo spesso espressione di questa cultura; che il rapporto tra magistrati e operatori dei servizi della salute mentale, pure quando questi hanno in carico la persona, è poco praticato, con spreco di tempo e di risorse per interventi che potrebbero trovare risposte immediate; che si ricorre alle Rems in maniera rilevante per misure di sicurezza provvisorie, per reati non gravi ma con finalità di controllo sociale».
Il problema della cura della salute mentale riguarda il sistema carcerario nel suo complesso. Diverse persone sentite dal Post dicono in sostanza le stesse cose: gli psichiatri sono pochi a fronte di un numero molto alto di persone con disturbi mentali, e nel frattempo il problema dei disturbi psichici in carcere è in aumento. Il Post spiega che nel gergo carcerario esistono le categorie dei “folli rei” e dei “rei folli”: «I primi sono le persone incapaci di intendere e di volere ma socialmente pericolose e dunque destinate da subito alle Rems. I secondi sono coloro il cui disturbo si aggrava o insorge dopo l’ingresso in carcere. Per loro, come spiega l’associazione Antigone, “devono essere trovati gli strumenti di cura esclusivamente all’interno del sistema penitenziario”».
Le carceri italiane sono «un sistema che costa nell’anno in corso (2022) quasi 3 miliardi e 200 milioni di euro, per gestire circa 55.000 detenuti con una spesa giornaliera di circa 160 euro a detenuto». E contro ogni ondata “sicuritaria” che ogni tanto qualcuno torna a cavalcare, tutte le ricerche dimostrano che non è mettendo le persone in carcere che le si recupera, anzi. È da poco uscita una versione aggiornata del libro Abolire il carcere, di Luigi Manconi e altri autori e autrici. Il Riformista ne propone il capitolo che illustra in 10 punti un programma minimo di riforma del carcere. Si parte proprio da una drastica riduzione delle fattispecie che prevedono come punizione la reclusione.
(Photo by Isai Ramos on Unsplash)
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