Coi virus non si scherza. Si parte da un caso, un “ceppo”, che poi si diffonde, si modifica, diventa resistente agli antibiotici mentre il contagio continua, e ogni speranza di salvezza si fa più debole. Ne è un esempio il virus del panico. Che può presentarsi sotto le insospettabili spoglie di un cetriolo, o di un germoglio di soia, per trasformarsi in un danno costato circa «100 milioni a 300 mila imprese ortofrutticole italiane», secondo Coldiretti. Causa dell’evento, il rilevamento di una ventina di casi mortali di escherichia coli in Germania, probabilmente a seguito di consumo di ortaggi crudi. Un virus in senso stretto quindi, che per avere effetti su larga scala ha avuto bisogno di un mezzo su cui muoversi in maniera rapida e agile. In questo caso, i media. Come ci hanno purtroppo abituato i mezzi di informazione italiani (e in questo internet non fa eccezione, almeno stando a guardare i siti dei più importanti quotidiani), la tempestività va sempre a scapito della precisione, dell’attendibilità. Esce un’agenzia che parla di epidemia da cetriolo, e subito le redazioni si muovono per creare attorno a esso un’atmosfera di intolleranza, un vero e proprio razzismo contro quei minacciosi venti centimetri verdi. Poi l’attenzione passa ai germogli di soia. Eccoli i veri killer, dietro quella loro aria sbarazzina si cela un ambiente in cui i batteri fioriscono floridi, pronti a colpire. E il panico dilaga, fino a muovere i numeri di un’economia già in stato di salute precaria come quella italiana. Sempre secondo Coldiretti, «il 43% degli italiani evita di consumare gli alimenti incriminati per un certo periodo di tempo, mentre il 13% lo esclude definitivamente dalla dieta. Solo il 30% si preoccupa ma non cambia acquisti e il 12% ignora del tutto l’informazione». Per carità, informarsi è giusto e non può che fare bene al Paese avere una popolazione che vive in stretta connessione con la realtà. Ma i media stanno rinunciando all’importante ruolo di filtro tra fatti e notizie che ne giustifica (meglio, ne rende indispensabile) l’esistenza.

Volendo andare al di là del problema strettamente informativo, forse eventi infausti come questo (perché comunque, e.coli, Sars e aviaria di vittime ne hanno fatte davvero, anche se molte meno di quelle che si paventavano) dovrebbero indurci a riflettere sul nostro modello economico. Un sistema fatto di supermercati che vendono prodotti che arrivano dall’altro capo del mondo. Frutta e verdura che costano meno di quelle nostrane, che possono approfittare di una produzione su larga scala che abbatte i costi fissi. Il panico è globale perché l’economia lo è. Cosa accadrebbe se ognuno mangiasse i prodotti della terra in cui vive? Innanzitutto, eventuali epidemie resterebbero circoscritte al luogo di produzione e consumo (perdendo di fatto il proprio status epidemico). Poi si abbatterebbero i costi, perché a quel punto si potrebbe aggirare la filiera che porta il cibo che compriamo dalla terra allo scaffale, e in cui ogni ingranaggio del meccanismo pretende di guadagnarci qualcosa. E ancora, si favorirebbe la socializzazione tra persone che vivono nello stesso territorio. In una società in cui si è sempre più individui e sempre meno persone (vedi il recente articolo di Marco Calini in merito), tornare a condividere i prodotti della propria zona (e magari coltivarli assieme) potrebbe essere il modo per uscire dal vicolo cieco che ci illude di essere sincronizzati col mondo solo perché possiamo inviare e ricevere mail ovunque ci troviamo, ma poi non siamo in grado di avere un rapporto cordiale col nostro vicino di casa. Riprendiamoci il nostro orto, e le epidemie ci spaventeranno di meno.