di Marco Calini
La pellicola che piace a grandi e piccini non è più un’eccezione natalizia: è la regola. E non perché i bambini siano cresciuti; au contraire. Una volta, per le feste comandate e il momento del gioco, i grandi si facevano piccoli; per il resto erano i piccoli che dovevano fare il loro mestiere, ossia diventare grandi. Ma adesso provate a fare un giro nei multisala vicini e lontani, e contate i film d’animazione. Non solo non ci sono più le mezze stagioni, ma ogni momento è buono per illuminare il maxischermo con l’ultima magia senza trucco e senza inganno, perché lo stupore è figlio della tecnologia e questa non va mai in vacanza. E di questi tempi ci mancherebbe, con la crisi di idee che finanzia quella economica. Si va a colpo sicuro; gli effetti speciali che avevano montato la panna nei decenni Ottanta e Novanta da diverse stagioni hanno cambiato campo, dalla carne e ossa ai pixel. A fine luglio, al Comic-Con di San Diego, la Cannes del cinema fantasy, sono arrivati Steven Spielberg e Peter Jackson. La premiata ditta era in missione Tintin; pellicola prossimamente sui grandi schermi, diretta dal primo e prodotta dal secondo. Per la cronaca, sul grande schermo il personaggio nato dalla penna di Hergé sarà interpretato con la tecnica motion capture da Jamie Bell. Queste le dichiarazioni del regista di Duel e Schindler’s list riportate da Giovanna Grassi sul Corriere della Sera: «Tintin è il mio Indiana Jones in calzoni corti, è un poeta del rischio, della ricerca di tesori della fantasia, viene dal passato e va verso il futuro e dal futuro ritorna al passato e oggi il cinema permette con le sue tecniche ogni possibile immaginazione visuale». Che sia la traduzione difettosa, il montaggio delle frasi imperfetto, visti i tempi di lavorazione di un quotidiano? Davvero Spielberg pensa che ogni possibile immaginazione visuale sia permessa oggi dal cinema con le sue tecniche? Forse che l’impresa degli Argonauti, il volo di Astolfo sulla Luna erano moncherini in attesa che gli Studios della Sunny California perfezionassero le tecniche per renderli ancora più immaginifici? Forse, nelle sua ingenuità, non fa più ridere il missile nell’occhio della Luna nel corto di Méliès delle pagine, pienamente autosufficienti, di Verne? Forse alle strisce di Tintin mancava la motion capture per accendere la fantasia? Non è proprio dalla staticità bidimensionale della vignetta che si sprigiona il potenziale immaginativo di ogni bambino che ha letto quelle avventure? E che, fin che è stato bambino, ha desiderato prolungarle oltre la propria naturale trama e darle consistenza oltre quella terra piatta che è il foglio di carta? Ognuno, per Tintin o per altre stripes, lo ha fatto. Poi è cresciuto.