di Federico Caruso

Foto di Ricecracker.

L’acronimo “Suv” resta per me un mistero. A volerlo esplicitare si ottiene “sport utility vehicle”. Un’utilitaria sportiva. Già qui trovo delle contraddizioni. L’utilitaria è l’auto per tutti i giorni. Quella che usi per andare a fare la spesa, per accompagnare i bambini in piscina. A cosa serve che sia “sportiva”? Le nostre città sono mediamente percorse da auto molto più modeste, che nonostante le dimensioni ridotte e l’assenza di trazione integrale riescono ad assolvere a queste e altre funzioni. Consumando meno (almeno le più recenti) e facendo correre meno rischi agli altri automobilisti, ciclisti, motociclisti, pedoni.

Non è la solita “battaglia ideologica”, come la definisce Maurizio Donelli sul suo blog per il Corriere: «L’ostilità nei confronti di queste auto, genericamente definite gipponi, in realtà è stata generata da ben altro: spesso dall’invidia di chi il Suv non lo poteva comprare e invece lo avrebbe tanto voluto (la volpe e l’uva)». Una tesi francamente insostenibile. Gli italiani hanno sempre avuto gusto per le belle auto. Nomi come Lamborghini, Ferrari, Maserati sono conosciuti in tutto il mondo, ci hanno sempre contraddistinto per la qualità del prodotto, contribuendo a creare quel concetto di Made in Italy che ancora oggi, seppure un po’ logoro, è un marchio che fa pensare a prodotti e aziende d’eccellenza. I suv, a differenza delle auto appena citate, sono brutti. Sembrano dei fuoristrada smussati, o delle auto da città sformate.

Qualcuno si risentirà nel leggere queste parole (che restano opinioni di chi scrive), ma mi chiedo a cosa serva comprare un fuoristrada, se poi fuori dalla strada non ci vai (molti modelli non montano nemmeno le cosiddette “ridotte”, le marce che servono per guidare su sterrato: chi ha certe necessità o hobby si compra una Jeep). Anzi, vista la congestione che sta conoscendo il traffico delle nostre città, spesso questo “bestioni” non possono fare altro che stare imbrigliati davanti a un semaforo rosso, o dietro a un’altra auto. Tutta la loro verve atletica rischia di restare inespressa.

Ammesso che ci sia, visto che diversi studi hanno accertato una scarsissima tenuta di questi mezzi durante la cosiddetta “prova dell’alce”, quella che testa se il veicolo è in grado di scartare un ostacolo improvviso senza ribaltarsi. «Negli Usa muoiono per ribaltamento 10-12 conducenti di Suv su 100mila all’anno -si legge su questo articolo-; i ribaltamenti causano il 53 per cento delle morti da incidenti stradali per i Suv, e il 19 per cento per le auto normali».

Secondo un rapporto di Legambiente, se una normale auto viene urtata da un suv, il guidatore ha un 30 per cento in più di possibilità di perdere la vita. Molto pericolosi gli scontri frontali, in cui il suv tende ad arrampicarsi sopra l’auto in arrivo, entrando letteralmente nell’abitacolo. Alti anche i rischi per i pedoni in caso di incidente. Un’auto mediamente centra il malcapitato alle gambe, con conseguenze certamente diverse rispetto a un suv che, essendo più alto, tende a colpire il bacino e il torace. Ci pensa poi il peso eccessivo ad allungare gli spazi di frenata.

Secondo il mensile Quattroruote, che di certo non ha interesse a scagliarsi in battaglie ideologiche, per un automobilista investito lateralmente da un suv il rischio di morte è trenta volte superiore. Insomma, non è un discorso da straccioni, da biasimatori della ricchezza, bensì da comune cittadino. È un fatto che il Paese sta attraversando un momento molto difficile da alcuni anni a questa parte, ma la quota di suv continua a crescere: erano il 2,8 per cento del mercato nel 1998, l’8,1 nel 2010 (12,4 se aggiungiamo i più economici “crossover”). Non è che questa voglia di guidare seduti più in alto serve a sentirsi un po’ meno “col culo per terra”?