Dall’8 gennaio è online sul sito del Ministero dello sviluppo economico la bozza del Codice di autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo. Il testo si compone di cinque articoli, e vede come parti in causa da una parte lo stesso Ministero, dall’altra i fornitori di servizi di social networking, ossia le piattaforme più in uso tra gli adolescenti per diffondere video, foto, informazioni e qualunque tipo di dato possa servire a un “cyberbullo” per danneggiare la vittima designata. Si chiede alle aziende in questione di mettere a disposizione volontariamente sistemi di segnalazione di pratiche scorrette ad uso dei bambini che ritengano di essere stati danneggiati (articolo 1). Inoltre si chiede che il gestore del servizio valuti ed eventualmente rimuova (o nasconda temporaneamente) i contenuti offensivi entro due ore dalla segnalazione (articolo 3). Il gestore dovrà collaborare con le forze dell’ordine nel fornire i dati che permettano di risalire all’identità del “persecutore”, in modo che le prime possano intervenire, e inoltre dovrà impegnarsi ad avviare campagne di sensibilizzazione per scoraggiare pratiche scorrette nell’uso dei social network (articolo 4). Infine, viene istituito un comitato di esperti (senza costi per lo Stato) incaricato di monitorare l’effettiva applicazione del Codice da parte delle aziende che aderiscono (articolo 5).

Questi, in breve, i contenuti. Non siamo esperti in materia e quindi non pretendiamo di esprimere giudizi troppo tranchant sul lavoro del Ministero, ma possiamo permetterci di dire che ci sembra piuttosto modesto come impegno. Innanzitutto il Codice non impegna le aziende che vi aderiranno: si tratta di linee guida piuttosto vaghe e chi le seguirà potrà farlo se e quanto gli piace. Ci appoggiamo alla bella analisi che ne fa l’avvocato e blogger Bruno Saetta su Valigia Blu, quando spiega per esempio la debolezza dell’articolo 4: se siamo in presenza di veri e propri reati, allora interverrà la magistratura che ha già tutti gli strumenti per chiedere e ottenere l’identità del presunto colpevole, mentre se non si sospetta un reato, ma solo un comportamento “antipatico” (per quanto grave nelle conseguenze che può avere sulla vittima) le autorità non hanno titolo a entrare nella vicenda.

In generale, sostiene Saetta, l’intento del Codice sembra andare nella direzione di “rimuovere” o “nascondere” i fenomeni di cyberbullismo in rete, piuttosto che prevedere interventi e attività volti ad arginare il fenomeno facendo leva sugli ambienti che più possono influire sui comportamenti dei ragazzi, ossia la scuola e la famiglia. «I predittori di rischio sono sempre le dinamiche familiari – scrive Saetta – Focalizzarsi, invece, sulla tecnologia, sul mezzo, da un lato tranquillizza i genitori, assolvendoli per i loro errori (i minori sono influenzati dai comportamenti dei loro genitori), distraendoli dai problemi reali, ma crea anche preoccupazione verso la tecnologia spesso non sufficientemente compresa. Ciò determina ovvi fenomeni di impotenza di fronte al problema (io come genitore non posso cambiare Internet), così inculcando nella gente il bisogno di rivolgersi all’autorità per la tutela dei propri figli, che poi delega alle aziende private, quando più semplicemente basterebbe educarli attraverso esempi di comportamenti positivi. Il sottoproblema (cyberbullismo) viene sopravvalutato mentre il problema reale viene declassato. Le risorse vengono convogliate verso la direzione sbagliata. Così nasce il mercato della sicurezza online».

La questione è complessa e una risposta semplice non c’è. In attesa di proposte migliori e più articolate da parte del Ministero, è interessante il tentativo di Janell Burley Hofmann, una donna statunitense che si occupa di programmi per migliorare i rapporti familiari, che un anno fa ha regalato al figlio tredicenne un iPhone, accompagnando il dono con un “contratto” di 18 punti in cui si stabilivano alcune regole da rispettare per l’utilizzo del nuovo apparecchio. Giusto o sbagliato che sia, è un atteggiamento che vede il genitore porsi il problema dell’uso che il figlio fa della tecnologia, e di tutti i rischi che essa comporta (qui si racconta come sta andando dopo un anno, bene sembrerebbe).