Ecco un argomento su cui siamo decisamente dentro l’Europa. Nella sostanziale indifferenza generale, alimentata dal ridotto, ridottissimo spazio dedicato alla notizia sui principali mezzi d’informazione, il Parlamento italiano ha approvato il 19 luglio la legge con cui aderisce ai trattati Ue sul fiscal compact. Di che si tratta? Per capire la portata dell’impegno, diciamo solo che la Germania, che ormai da tempo sembra essere il riferimento politico per l’Europa, non l’ha ancora adottato: prima si dovrà pronunciare in merito la sua Corte costituzionale.

«Con l’approvazione del fiscal compact -si legge sul sito Professione finanza– entra in vigore il “taglia debito” imposto dall’Unione europea in linea con i diktat rigoristi della  Merkel e dei vertici Ue. Il fine è quello di ridurre il deficit a zero, con tagli da 45 miliardi di euro all’anno per 20 anni. Per capire cosa significherà basta dire che la spending review di Monti cancella soltanto 29 miliardi di spese in tre anni. Una manovra indipendente dai governi che ci sono e che verranno. L’Europa avrà un controllo centrale sui bilanci e sul fisco dei paesi dell’Unione, in particolare su quelli a rischio, tra cui, naturalmente, c’è l’Italia. Inoltre la Camera dovrà approvare anche il meccanismo europeo di stabilità (Mes), un fondo da 500 miliardi che dovrebbe diventare operativo da settembre, se la corte costituzionale tedesca darà l’ok. Questo sarà il paracadute per le nazioni pericolanti. Il fiscal compact prevede innanzitutto l’obbligo del pareggio di bilancio e una riduzione del debito pubblico per un ventesimo della quota che supera il 60 per cento del Pil per 20 anni. Quindi, per quel che riguarda l’Italia, gli italiani saranno obbligati a pagare 45 miliardi di euro l’anno».

Rileggendo con attenzione le cifre, a occhio e croce ci sembra una notizia che meriterebbe la prima pagina per alcuni giorni. Prima, durante e dopo il dibattito parlamentare. Nulla di tutto ciò. Il 20 luglio il Corriere apriva sul “record” italiano nella pressione fiscale, salita fino al 55 per cento. Notizia peraltro facilmente collegabile a quella sulla ratifica del trattato: occasione persa. Su Repubblica si parlava di mafia, attentati e banche spagnole; stesso copione, con minime variazioni, su La stampa e il Fatto quotidiano. Unica eccezione il Sole 24 Ore, in cui un trafiletto rimandava a un articolo a pagina 4 dedicato al fiscal compact, in cui le prime tre colonne erano dedicate a descrivere quali governi hanno o non hanno approvato il provvedimento, e le difficoltà riscontrate nell’Aula italiana; nella quarta finalmente si spiegava cos’è.

In compenso, sono stati pubblicati ovunque gli appelli del presidente Giorgio Napolitano a nuovi sacrifici, per evitare che la crisi degeneri (ma ha senso continuare a chiedere ai cittadini ulteriori sforzi, dipingendoli sempre come l’ultima speranza su cui puntare per non fare affondare la nave?). Interessante inoltre che il 4 luglio, un paio di settimane prima dell’approvazione della norma, sia apparso un articolo sul Corriere in cui si ribadiva che «Il vertice italo-tedesco è l’occasione per mettere in chiaro che, nell’Unione Europea, ogni Stato deve contribuire al bene comune, che è tempo perduto estorcere alla Germania concessioni sugli eurobond, che bisogna buttarsi a capofitto nella creazione di un’unione bancaria, di bilancio ed economica. Dopotutto l’Italia ha invocato per decenni in ogni possibile sede la realizzazione di un’Unione politica, ha puntato sempre, con eccezione della parentesi del governo Berlusconi, a istituzioni sovranazionali forti che facessero perno sulla Commissione. Adesso i nodi sono venuti al pettine: in questa fase l’unione politica passa attraverso una parziale rinuncia all’autonomia fiscale e di bilancio». Un ragionamento che spiana la strada al fiscal compact.

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Dentro o fuori dall’Europa? (parte prima)
Dentro o fuori dall’Europa? (parte terza) | Immigrazione