di Federico Caruso

Qualche giorno fa, per l’esattezza il 5 aprile, mi è capitato di leggere sul blog InVisibili un bell’articolo di Claudio Arrigoni, dal titolo “Invalido a chi? Disabilità: le parole corrette”. Non ho pensato di soffermarmi troppo sull’argomento, dato che trovavo le conclusioni del giornalista tanto condivisibili quanto scontate. In sintesi, il succo dell’articolo si può comprimere in questa frase: «Semplicemente: persona con disabilità. L’attenzione sta lì, sulla persona». Come sempre capita in questi casi, ho ripensato a me stesso e all’uso che io faccio delle parole, nella vita quotidiana, nel lavoro, su questo blog. E devo dire che, pur senza aver mai affrontato la questione in maniera sistematica, la mia pratica è sempre andata nella direzione indicata da Arrigoni.

Mai mi verrebbe in mente di usare espressioni come “disabile”, o peggio ancora l’ipocrita “diversamente abile”. E a sfogliare questo blog se ne può avere la conferma. Con questo non voglio attribuire a ZeroNegativo il complesso da “primo della classe”. Bensì sottolineare che l’attenzione verso le persone si rispecchia anche nelle azioni apparentemente più accessorie e meno concrete, come la scelta delle parole.

Sinceramente, non avrei dato spazio a questo tema, considerandolo dato per scontato, se non mi fossi accorto che sullo stesso blog, a distanza di poche ore, Franco Bomprezzi ha ritenuto necessario dare un seguito alla discussione. Questo perché un alto numero di lettori si è immediatamente scagliato contro il pezzo di Arrigoni, considerandolo frutto di “handicappati frustrati”, ignorando tra l’altro che questi «è un giornalista sportivo, apparentemente (ma solo apparentemente) normale».

Di seguito, in sintesi, il pensiero di Bomprezzi in merito: «Il motivo per cui continuiamo a cambiare le parole attorno alla disabilità è legato soprattutto alla connotazione negativa che tali parole, nel corso del tempo, vengono ad assumere. In pratica, le parole si logorano prestissimo. Sparisce quasi subito la carica innovativa e positiva, e ogni termine, nato con le migliori intenzioni, si trasforma in un insulto, in un’offesa, a volte perfino in un modo di dire, da usare in contesti diversi. […]

Le parole si logorano perché in Italia, più che altrove, la disabilità è connotata negativamente, come un fardello ingombrante, un peso, un carico di sfortuna, di sofferenza, di diversità, di dolore. Le persone con disabilità in Italia si dividono in due: eroi o vittime. La normalità non esiste, viene sacrificata sull’altare di una comunicazione fuori registro, spesso ignorante e superficiale, incapace di trovare la sintonia tra le parole e le cose.

Perché in Francia sopravvive ad esempio il termine “handicapé”? Senza che nessuno si offenda? Semplicemente perché in Francia l’inclusione sociale, umana, lavorativa è quasi scontata (ad eccezione della scuola, dove sopravvive il modello delle scuole speciali). In Spagna si usa addirittura il termine “minus validos”. Ma lì, specie a Barcellona (per fare un esempio concreto) le barriere architettoniche non esistono praticamente più. La presenza delle persone disabili è dunque vissuta come normale, come positiva, ovviamente con le dovute eccezioni. Nel Regno Unito, nei dvd, la sottotitolazione è indicata per “hard of hearings”, che in italiano suonerebbe “duri d’orecchio”. Quindi non solo tecnicamente i sordi, ma anche gli anziani. Ma lì i sottotitoli ci sono, mentre da noi quasi mai. […]

L’impaccio delle parole è la riprova che facciamo fatica a metterci in relazione gli uni con gli altri. Anche il mondo della disabilità sconta questo limite: troppo spesso è chiuso in se stesso, in una discussione fra persone che condividono tutto, a cominciare dalle letture, per finire ai documenti estenuanti e illeggibili che purtroppo circolano ancora nelle associazioni e nei convegni».