Siamo vicini alle comunità colpite ieri da nuove fortissime scosse di terremoto in Centro Italia. Pubblichiamo di seguito un estratto dal reportage di Francesco Merlo realizzato dalle zone colpite dalle scosse del 26 ottobre.
CAMERINO – Sono così abituati alle scosse che le chiamano schicchere. «Ma anche sardelle» mi dice la signora Maria Cappa, 72 anni e cento terremoti scolpiti in faccia. Il suo viso popolare e a tinte forti, più Courbet che Caravaggio, prova che la paura produce anche saggezza e misericordia. Schicchera è infatti il clic del dito medio sul pollice, e sardella è lo scappellotto, è la botta. Sono diminutivi e vezzeggiativi, piccole difese linguistiche per truffare appunto la paura, per dominare il rischio sismico che non significa soltanto convivere con le crepe, ma soprattutto non credere pienamente nel futuro: «A che vale lo sforzo di ricostruire se la terra ti balla sotto i piedi?».
La prima volta fu nel 1972, «l’anno del mio matrimonio», poi nel 1979, «quando ero incinta di Francesco». Quello memorabile arrivò nel 1997, «ma il peggiore è adesso». Fa una pausa la signora Maria e prende fiato: «Forse è vero che il peggiore è sempre l’ultimo».
La paura infatti fa ogni volta tabula rasa. Ed è per questo che non si impara mai a raccontarla. All’alba di mercoledì, quando sono arrivato a Visso, la paura appannava i vetri delle auto, era il fiato della famiglia Franconi che dormiva nella Ford Focus. La paura è anche un’intimità collettiva d’emergenza. Erano infatti moltissime le auto abitate e riscaldate con il calore umano. Ed erano parcheggiate in fila indiana come tante villette a schiera, ma lontane dal pietrame e dal calcare che ingombrava soprattutto le vie più anguste. Le case erano invece vuote, ma per sospensione della vita che, di nuovo, non è altro che paura.
Non erano insomma come le case di Amatrice dove la vita era spezzata perché il terremoto aveva strappato le mura esterne e così dalla strada si violava l’intimità postuma di gabinetti, di soggiorni e di camere da letto. «Il terremoto come minaccia fa molta più paura del terremoto vissuto che è invece dolore, disperazione, ma anche ripartenza, fosse pure quella di Sisifo condannato a ricominciare in eterno».
«La paura non è solo i capelli che si drizzano» mi spiega Marcello Fratini, un giovane avvocato che è nato a Ussita, «e non è solo la gola che si strozza, gli occhi che si velano e le gambe che si piegano». La paura «è anche comunità». A Visso, a Ussita, a Pieve Torina, a Castelsantangelo sul Nera, a Muccia, a Camerino, da quando martedì sera la terra ha ricominciato a tremare, la gente si è rifugiata e si è ritrovata in strada poprio come in passato si riuniva in chiesa: «La paura del terremoto non ferma il tempo, lo rovescia».
E al bivio tra Visso e Ussita, mentre i vigili del fuoco con i caschi neri, manovrando la ruspa e i bobcat demoliscono una casa «che, per beffa del destino, era stata appena venduta a una famiglia napoletana», tra la gente che si è svegliata e ora è in strada come fosse in mensa consumando caffè e cornetti, si è aperto un dibattito – nientemeno – sulle doppie faglie e sugli sciami sismici. […] Intanto gli anziani ricordano terremoti di intensità maggiore. E sono ricordi che scavalcano più di una generazione quelli del muratore Bruno che ora ha perso i capelli e due denti davanti, ma a Tempori, «dove d’inverno c’è il sole», si è fatto la casa antisisimica «con le mie mani». La sua casa ha retto perfettamente, mentre è gravemente danneggiata con profonde fessure «l’imponente supervillona antisismica di calcare bianco di Alfio Caccamo, un costruttore di origini siciliane, tra i più ricchi della valle». La paura ha un lato beffardo, da lotta di classe sismica?
Adesso si ride nella strada più abitata delle Marche. E tutti fanno ironia perché i giornali e i siti hanno raccontato che «a Roma oscillavano i lampadari e tremavano i bicchieri: niente di più. Poveri romani. Hanno persino evacuato la Farnesina». Una ragazza di nome Alessandra, di professione segretaria d’azienda, nota che «a Roma c’è sempre un’aria da 8 settembre, un bisogno irresistibile di svignarsela».
Ma non ci sono archivi e memorie che possano ridurre l’angoscia quando alle 10 del mattino ci guardiamo in faccia e ci chiediamo se quella che arriva è una schicchera, è una sardella. Acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire, la paura ora ci tende come corde: «Le corde del macellaio – scriveva Federico De Roberto nel racconto “La Paura” – che trascinano le vittime al macello».
Dunque il dibattito si blocca di botto perché di fronte alle macerie ancora fresche della chiesa di Villa Sant’Antonio, che aveva un bellissimo portale rinascimentale, ora la terra trema e la nipotina della signora Cappa si mette a piangere, mentre il cane, che nessuno aveva notato, comincia ad abbaiare. E bisogna trovare il coraggio di restare fermi mentre cade un cornicione e si mettono a correre i cuori degli anziani.
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Fonte foto: flickr