Quando si parla di articoli scientifici, normalmente si usa un linguaggio riferito a un’epoca in cui gli studi erano effettivamente “pubblicati” su riviste cartacee. Questo implicava una serie di passaggi obbligati dovuti alla selezione e adattamento del materiale al formato della pubblicazione. Oggi però, grazie a internet e all’uso sempre più diffuso di dispositivi tecnologici, la stragrande maggioranza delle ricerche viene presentata, revisionata e letta online.
Eppure il sistema generale delle pubblicazioni scientifiche è rimasto in gran parte invariato. Gli articoli (spesso chiamati paper, con un chiaro riferimento al supporto un tempo prevalente) sono ancora inviati a revisori esperti, e ci sono ancora dei redattori che danno il responso sull’inclusione di un articolo nella rivista in cui lavorano.
Questo sistema comporta grossi problemi, ha scritto il neuroscienziato Stuart Ritchie sul Guardian. Il principale è che i revisori e i redattori sono più propensi a pubblicare un articolo scientifico se riporta risultati positivi o che possano generare entusiasmo. Così gli scienziati si danno da fare per enfatizzare i propri studi, per forzare le analisi in modo da produrre risultati “migliori”, a volte al punto da commettere frodi, al fine di impressionare gli intermediari tra il loro studio e l’agognata pubblicazione. Questo, va da sé, produce delle distorsioni.
Gli studiosi sono talvolta ossessionati dalle pubblicazioni scientifiche, utili a rimpolpare il loro CV, e questo li porta ad adattare i propri lavori alle attese di chi dovrà selezionarli. Per esempio, molti tendono a limitare il grado di complessità dei risultati ottenuti, limando le parti meno chiare in modo da “raccontare una storia migliore”.
Un aspetto molto limitante nelle pubblicazioni scientifiche è poi la questione delle correzioni. Secondo uno studio, oltre il 50 per cento degli articoli pubblicati contiene un errore statistico e più del 15 per cento un errore abbastanza grave da ribaltare i risultati. Nelle riviste, correggere questo tipo di errori è molto difficoltoso: bisogna scrivere al giornale, catturare l’attenzione del redattore indaffarato e far sì che pubblichi un nuovo, breve articolo che illustri formalmente la correzione.
Infine c’è la questione della condivisione dei dati. Oggi è possibile allegare i dataset usati in pochi clic (anche se non è così semplice, come abbiamo scritto in passato). Eppure, i paper non hanno quasi mai i dati allegati, impedendo a revisori e lettori l’accesso al quadro completo.
Ci sono alcuni possibili rimedi per migliorare il funzionamento delle riviste, ma la proposta di Ritchie è più radicale: sbarazzarci del tutto degli articoli scientifici.
La soluzione proposta da Ritchie è molto semplice: usare Internet. «Possiamo trasformare i gli articoli in mini siti web (talvolta chiamati “notebook”) – scrive l’autore – che riportano i risultati di un determinato studio. In questo modo non solo tutti possono vedere l’intero processo, dai dati all’analisi fino alla stesura (il dataset verrebbe allegato al sito web insieme a tutto il codice utilizzato per analizzarlo, e chiunque potrebbe riprodurre l’analisi completa e verificare i numeri), ma qualsiasi correzione potrebbe essere apportata in modo rapido ed efficiente, riportando la data e l’ora di tutti gli aggiornamenti».
Ovviamente ci sono degli ostacoli a un simile cambiamento. Alcuni hanno a che fare con le competenze: è facile scrivere un documento Word con i propri risultati e inviarlo a una rivista, come si fa ora; è più difficile creare un sito web per i notebook. Ma soprattutto, come funzionerebbe la revisione paritaria in questo scenario? È stato suggerito che gli scienziati potrebbero assumere delle persone con questo compito specifico. Ma chi pagherebbe, e come funzionerebbe esattamente il sistema? Tutte domande aperte, ma che è bene iniziare a porsi.
«Alcuni campi della scienza si stanno già muovendo nella direzione descritti fin qui», conclude Ritchie. «È ora che il resto della scienza segua l’esempio».
(Foto di Christa Dodoo su Unsplash)
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