Nonostante la violenza a cui ha assistito durante l’attentato al Bataclan di Parigi, lo scorso 13 novembre, il cantante degli Eagles of Death Metal, Jesse Hughes, si è dichiarato favorevole alla diffusione di armi, incitando anzi la Francia ad adeguarsi: «Forse finché più nessuno avrà una pistola, tutti dovrebbero averne una. Perché non ho mai visto morire una persona che aveva una pistola, e voglio che tutti possano averne una. Ho visto morire persone che forse avrebbero potuto vivere». Vorremmo dire a Hughes, se mai qualcuno dovesse tradurgli questo articolo, che le sue idee yankee può cortesemente riportarsele negli Stati Uniti, dove sono certamente meglio accettate. In Europa c’è una cultura diversa in merito alle armi, e distribuire pistole a ogni angolo di strada non porterebbe di certo a nulla di buono nel controllo della violenza.
Chissà come si sentirebbe, Hughes, se durante il tour della sua band si trovasse a visitare la Norvegia e sapesse che i poliziotti lì non girano armati. Come passeggiare per Oslo la sera senza sentirsi minacciati a ogni angolo di strada? Le parole del cantante riecheggiano idee molto comuni nella cultura statunitense, dove a ogni strage, a ogni sparatoria, c’è chi invoca a un maggior numero di armi, in modo che i “buoni” possano immediatamente neutralizzare il “cattivo” in ogni situazione, senza aspettare l’arrivo della polizia. Un po’ come nel Far West. È il mito del good guy with a gun (“bravo ragazzo con la pistola”), portato avanti da tutti coloro che propongono questa soluzione semplicistica a un problema complesso. È un’espressione che si sente ripetere over and over again, con tono grave e aria emotivamente coinvolta, dai politici (soprattutto repubblicani) ogni volta che una pistola spara. Come tutte le semplificazioni estreme, anche questa nasconde una grande bugia.
Il good guy with a gun non sarebbe per niente determinante nella quasi totalità delle situazioni critiche, perché un conto è avere una pistola in tasca, un altro è essere in grado di gestire uno scenario in cui in pochi secondi bisogna valutare una quantità innumerevole di variabili e imprevisti. C’è chi si addestra per anni per essere in grado, professionalmente, di intervenire limitando al massimo il numero di vittime. Una trasmissione televisiva, The Daily Show, ha realizzato un divertente video in cui il comico Jordan Klepper prova a diventare egli stesso un good guy with a gun. Il personaggio è molto divertente, ma quanto raccontato è del tutto realistico. Egli si procura innanzitutto una pistola, aggirando molto facilmente (inviando un modulo per posta) le leggi che rendono difficile in alcuni stati ottenere il porto d’armi, fa un allenamento di pochi minuti per verificare di essere in grado di centrare il bersaglio, ed eccolo pronto a intervenire. Poi però si rivolge a un centro di addestramento per squadre d’intervento, per partecipare a una simulazione, e ottiene la dimostrazione del fatto che una pistola non rende chi la impugna un eroe. In un’esercitazione, Klepper si trova in una scuola in cui sente all’improvviso degli spari. Uscendo nel corridoio incrocia qualcuno, gli spara (con proiettili di vernice), ma scopre che è solo una persona che stava scappando, i veri “cattivi” arrivano alle spalle e gli sparano; dopodiché entra la polizia, che lo vede con la pistola in mano, lo prende per l’autore del crimine e gli spara anche quella. Non un grande risultato.
La realtà è che già oggi, quando le armi sono molto diffuse negli Stati Uniti, il good guy with a gun riesce a essere risolutivo solo nel 3 per cento dei casi, dunque più pistole non significano più sicurezza. Prima di fare certe “sparate” (passateci il termine), bisognerebbe dare un’occhiata alle statistiche, perché non sono solo gli attentati a fare vittime: «I morti per arma da fuoco del 2015 (negli Stati Uniti) sono finora stati più di 12mila, e più di 24mila i feriti – scriveva il Post il 3 dicembre 2015 –. Ted Alcorn, direttore dell’organizzazione no profit Everytown for Gun Safety, una società di ricerca che chiede una limitazione della vendita d’armi, ha spiegato al New York Times che i “mass shooting” sono una piccola percentuale dei casi in cui negli Stati Uniti muoiono persone a causa delle armi: “In California, a San Bernardino, sono morte 14 persone, ed è un’orribile tragedia. Ma in media circa altre 88 persone sono morte in quello stesso giorno negli Stati Uniti per colpa delle armi”».
Nel rifiutare con forza l’invito di Hughes ad aprire anche in Europa i supermercati delle armi, non vogliamo però far passare una visione semplicistica per cui meno armi significano automaticamente più sicurezza, mentre più armi corrispondono a una maggiore possibilità di stragi. I dati dicono che «Dal 1993 a oggi, il numero di armi in circolazione negli Stati Uniti è aumentato del 50 per cento circa, mentre nello stesso periodo il tasso di persone uccise per via di un’arma è dimezzato». Dunque, come sempre, la questione è più complessa di quanto si voglia far credere «Mentre si sono spesi miliardi per combattere il terrorismo, che ha causato la morte di 229 statunitensi in tutto il mondo tra il 2005 e il 2014, si è fatto poco per contrastare un fenomeno interno che ha portato nello stesso periodo ad almeno 310mila morti, suicidi compresi». Ringraziamo Hughes per il consiglio non richiesto, ma che torni a suonare il suo rock’n’roll e si tenga fuori da questioni più grandi dei suoi baffi.
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