Ciò che appare chiaro dalla crisi economico-finanziaria esplosa nel 2008, è che le banche e il mercato si trovano con “Un’anima divisa in due”, come recita il titolo di un film di Silvio Soldini. La prima è l’anima del commercio tradizionale, in cui lo scambio di beni e servizi genera ricchezza che viene depositata negli istituti di credito, dai quali si chiede innanzitutto sicurezza dell’investimento, a fronte di un ragionevole rientro sotto forma di interessi. La seconda è l’anima finanziaria, dove pare che tutto sia concesso in nome del profitto. È la palude da cui sono nati i famosi “derivati”, quella sorta di scatole cinesi che da fuori sembrano normali titoli dai rendimenti inspiegabilmente alti (e che sono stati acquistati soprattutto da privati, imprese, enti locali), mentre addentrandosi ci si imbatte nel marciume che li ha prodotti, e che prima o poi viene a galla.

Quindi abbiamo due mondi, il primo popolato da privati e imprese, il cui operato genera Pil, il secondo dominato da operatori finanziari e speculatori, le cui gesta generano solo molta carta. Il problema è che i due sistemi non vivono esistenze separate, e i danni causati dall’uno ricadono sull’altro. Così, accade sempre più spesso che operazioni finanziarie spregiudicate creino un forte guadagno iniziale per alcuni, a fronte di buchi spaventosi che la collettività è poi costretta a ripianare, con aiuti di Stato alle banche e la richiesta di ulteriori sacrifici ai contribuenti (almeno a quei pochi che pagano le tasse). I derivati «Erano 650mila miliardi nel 2008 -scrive Giulio Albanese su Vita in uscita il 30 settembre-, si erano ridotti a 600mila dopo la crisi e la chiusura delle bad bank; hanno raggiunto i 700mila miliardi in questi mesi. Una somma che vale 13 volte il Pil mondiale e che non destabilizza più solo le economia private ma fa saltare le economie degli Stati, a tutti i livelli, da quello nazionale a quello locale. Tante Regioni e Comuni negli anni passati avevano investito in questi titoli derivati senza sapere a cosa andavano incontro. Il “prezzo” dei derivati potrebbero essere anche tagli ai servizi del welfare. Più reale di così…». Reale come le proteste degli studenti greci che hanno imbrattato la facciata della sede principale della Bank of Greece, presa come simbolo di questa visione spregiudicata dell’economia. E come i 2,3 miliardi di dollari che un solo investitore, il trentunenne Kweku Adoboli, ha fatto perdere alla banca svizzera Ubs (sì, ci sono cascati anche loro) proprio investendo in questa tipologia di titoli. Nessun sistema di allarme è scattato per impedire che questo avvenisse, nonostante già nel 2008 la banca fosse stata salvata dai contribuenti a causa delle perdite generate da titoli “tossici” in portafoglio.

Ciò che serve per uscire da questa situazione è un cambio di direzione sostanziale da parte degli operatori economici. «Oggi l’economia è terra di missione -continua Albanese-, ha bisogno di un percorso di redenzione. Il primo passaggio è quello di proteggere le commodities da tutti i meccanismi speculativi. Le materie prime, da quelle alimentari a quelle energetiche, devono essere protette da un mercato calmierato e governato». La stessa soluzione individuata dalla rubrica di Inside Man, sullo stesso giornale, quando dice che «La soluzione rimane solo una: le banche dovrebbero tornare a fare la noiosa attività commerciale e delegare la parte investment a società le cui eventuali perdite non ricadano sullo Stato ma solo sugli azionisti. Diversamente saranno condannate a ripetere gli stessi errori che potrebbero mettere a rischio l’intera economia». E non possiamo che essere d’accordo, perché in un contesto in cui il lavoro è sempre meno tutelato e i reati finanziari sono stati in parte depenalizzati, è ormai sotto gli occhi di tutti che l’economia ha preso il sopravvento sulla politica e sui diritti.