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Una tassa odiosa e subdola, introdotta nel 2009, è stata recentemente riconfermata e aggiornata nelle tariffe. Si tratta del cosiddetto “equo compenso”, ossia una quota che chi compra dispositivi tecnologici in grado di riprodurre musica e film è costretto a versare alla società che si occupa di tutelare i diritti di artisti ed editori, la Siae. Consultando la tabella pubblicata dal Corriere si scopre che, dopo l’aggiornamento, la tassa sugli smartphone sale a 4 euro, mentre prima erano 90 centesimi. Sono stati introdotti anche i tablet, che nel 2009 non erano ancora diffusi, anch’essi tassati 4 euro. In maniera un po’ furba, il Ministero della cultura ha inserito nella tabella le quote corrispondenti di altri due Paesi in cui esiste un prelievo simile, Francia e Germania, forse per fare notare che le quote italiane, anche dopo gli aumenti, sono in genere più basse. C’è da dire però che nei due Paesi citati i redditi medi sono ben più alti dei nostri, e quindi anche il potere d’acquisto delle persone, senza contare che generalmente lì le prestazioni dei servizi di telefonia e connettività sono molto migliori di quelle italiane, il che può giustificare un prezzo più alto. Peraltro nel Regno Unito questa tassa non esiste, mentre in Spagna è stata abolita.

Sono solo le ultime perplessità, perché a monte c’è l’idea davvero antipatica di trattare tutti gli acquirenti come potenziali “pirati”, che non vedono l’ora di scaricare e copiare musica su tutti i supporti che possiedono. D’accordo, l’equo compenso si riferisce proprio alla tutela della copia privata. Ossia: se io compro un cd di musica e poi, invece che nello stereo, ne faccio degli mp3 da ascoltare sul telefono, è giusto che io paghi autore ed editore dei brani per l’ulteriore copia domestica di quelle canzoni. Ma è anche vero che le abitudini degli italiani stanno cambiando, come dimostra una ricerca commissionata dal Massimo Bray quando era, prima di Dario Franceschini, ministro della Cultura. Bray stava appunto iniziando un percorso di ripensamento di questa tassa, e per farlo voleva prima capire i comportamenti degli utenti, per giudicare se avesse senso o meno continuare a tassare tutti indiscriminatamente. Si scopre così che nel 69,4 per cento dei casi, l’eventuale copia privata degli utenti va dal supporto originale al personal computer. Solo il 5 per cento degli utenti intervistati fa ulteriori copie di musica e film su telefoni e tablet, mentre è molto più apprezzato l’ascolto in streaming, sfruttando i vari servizi che lo rendono possibile (il più celebre al momento è Spotify). Non dimentichiamo poi che, a giudicare dai numeri da capogiro fatti da servizi come iTunes, milioni di utenti nel mondo (e in Italia) acquistano e scaricano la musica direttamente in formato digitale sul proprio dispositivo, e il prezzo pagato per gli mp3 acquistati in questo modo comprende un numero limitato di licenze, ossia la possibilità di copiare i file scaricati un certo numero di volte. Ciò vuol dire che ci sono molte persone che pagano i diritti di copia privata (l’equo compenso) all’atto dell’acquisto di un cd vergine, un tablet, una chiavetta usb (!), e poi molto spesso non li usano per copie private di materiale coperto da copyright, oppure pagano ulteriormente i diritti di copia quando acquistano musica online.

Si parla genericamente di tutelare «il mondo della cultura», mentre si sa fin troppo bene che i meccanismi della Siae finiscono per avvantaggiare i nomi più grossi del mondo discografico e cinematografico, mentre i gruppi appena sotto la soglia della popolarità devono impegnarsi a non sbagliare neanche una virgola nel compilare i borderò a fine concerto se vogliono sperare di vedere qualche spicciolo a fine anno. Non ci vengano a dire, infine, che la tassa colpisce il produttore, perché quest’ultimo non ha nessun vincolo che gli impedisca di far ricadere la quota sul prezzo di vendita. Alcuni produttori (tra cui Apple) hanno scorporato sul proprio negozio online il prezzo del prodotto dalla quota relativa a questa tassa, quindi l’acquirente è messo di fronte al fatto che una parte di quanto sta pagando serve a coprirla. Un peccato che il percorso iniziato da Bray, esponente dello stesso partito dell’attuale ministro, misteriosamente rimosso col cambio di governo Letta-Renzi, si sia interrotto prematuramente.