«Come possiamo consumare il più possibile il vostro tempo e la vostra attenzione?». Questa è una delle domande che si sono posti i fondatori del più grande social network al mondo, Facebook, e che dovrebbe farci riflettere sui reali presupposti con cui questo tipo di piattaforme sono nate. La dichiarazione viene da colui che faceva da consulente informale per Mark Zuckerberg e che è stato il primo presidente della multinazionale, il 38enne Sean Parker (poi si dovette dimettere per problemi giudiziari, che non portarono però ad alcuna accusa). Fu colui che traghettò Facebook dall’essere un progetto universitario a diventare azienda vera e propria, contribuendo a trovare investitori (su tutti Peter Thiel, co-fondatore di Paypal) per far crescere la startup. Tornando alla domanda di apertura, è abbastanza sorprendente leggere come, già nel 2003-2004, degli studenti tra i venti e i trent’anni si stessero ponendo le domande che avrebbero dato vita non solo a un nuovo modo di relazionarsi, ma anche a un nuovo modo di fare soldi, cioè l’economia basata sull’attenzione.
Si tratta di un problema che sempre più studiosi stanno riscontrando, quello della riduzione della capacità delle persone di restare concentrate su un argomento (il cosiddetto attention span, ne abbiamo parlato qui). Certo la preoccupazione non è nuova, già negli anni ’70 del secolo scorso il moltiplicarsi di apparecchi radiofonici e soprattutto televisivi nelle case della classe media di tutto il mondo aveva messo in allarme sui possibili rischi dovuti a un utilizzo troppo intensivo. Internet, prima, e tutti i dispositivi che vi si collegano, poi (su tutti lo smartphone, almeno in questo momento storico), ha però portato il problema su un altro livello, data la pervasività con cui siamo continuamente in contatto con una sorta di “estensione digitale” delle nostre vite. Facebook (e gli omologhi che hanno seguito l’esempio) ha fatto il resto, offrendo all’utente medio uno stimolo irresistibile a restare costantemente connesso. Il problema è che tutto questo ha avuto sviluppi rapidissimi, a cui nessuno era preparato.
Oggi si inizia a discutere seriamente (a volte anche con toni eccessivamente apocalittici) di come i social stanno modificando il modo in cui funziona il nostro cervello. Ma ancora non sembra esserci una presa di coscienza forte nella popolazione, niente di paragonabile al monito che chiunque ha ricevuto da bambino sul fatto di non guardare troppa televisione. La dichiarazione di Parker, che ora è dirigente dell’Institute for Cancer Immunotherapy (di cui è anche fondatore), è stata rilasciata durante una conferenza organizzata da Axios al National Constitution Center di Filadelfia. Dopo aver descritto gli intenti con cui collaborò allo sviluppo di Facebook, Parker si è definito una sorta di “obiettore di coscienza” dei social network. Una posizione che fa capire quanto l’argomento non sia da prendere alla leggera.
Durante l’intervento, Parker ha continuato dicendo che all’epoca della nascita di Facebook lui e i suoi collaboratori erano coscienti del fatto di dover dare ogni tanto all’utente una «dose di dopamina», e ciò sarebbe avvenuto nel momento in cui un altro utente avrebbe «messo mi piace o commentato una foto, o un post, o qualunque cosa. E questo ti porterà a postare altri contenuti, che ti porteranno ulteriori like e commenti». Si crea così un corto circuito, un «social-validation feedback loop (espressione difficile da tradurre senza toglierle efficacia), esattamente ciò che potrebbe venire in mente a un hacker come me, perché si sta sfruttando una vulnerabilità della psicologia umana».
Parker e i suoi sodali vedevano il cervello umano esattamente come guardavano a un sistema operativo, ossia un meccanismo da forzare, facendo leva sui suoi punti deboli. Li hanno trovati in questo “loop delle ricompense”: «Eravamo coscienti di ciò che stavamo facendo. E siamo andati avanti lo stesso». Sono parole che ricordano in maniera inquietante quelle dei pentiti di mafia, degli ex criminali redenti dal peccato. Ed ecco perché conviene stare molto attenti quando sentiamo, come sempre più spesso accade, associare l’espressione social network al concetto di democrazia. Zuckerberg parla da tempo del suo obiettivo di portare Internet nelle zone più remote del pianeta, come mezzo per “liberare” masse di “disconnessi” dalla loro condizione di inferiorità. Ma probabilmente il giovane Ceo di Facebook vede soprattutto grandi bacini di “attenzione” da sfruttare per creare nuove interazioni, nuovi like, e di conseguenza maggiori profitti.
Facebook e altre piattaforme, nonostante le dichiarazioni e gli impegni ufficiali, hanno dimostrato tutta la loro debolezza nel poter (ma soprattutto voler) arginare il fenomeno delle fake news o l’influenza di soggetti che cercano di orientare il voto durante le elezioni nei vari Stati. Come riassume l’Economist parlando delle elezioni americane di un anno fa, tra gennaio 2015 e agosto di quest’anno 146 milioni di utenti sono stati esposti alla campagna di disinformazione russa su Facebook, YouTube ha ammesso di aver trovato 1.108 video collegati alla Russia, e Twitter ha trovato sulla sua piattaforma 36.746 profili collegati alla stessa campagna. Come si può parlare di opportunità per la democrazia, come in molti provano a fare, di fronte a fatti del genere?
(Foto di Eaters Collective su Unsplash)