«La nonviolenza è la più grande forza a disposizione del genere umano. È più potente della più potente arma di distruzione che il genere umano possa concepire». Pare siano state queste, in punto di morte, le ultime parole del Mahatma Gandhi. E se anche non fossero state esattamente queste, a renderle autentiche basterebbe la biografia di uno degli uomini più importanti per la storia del Novecento. Dal pensiero filosofico e politico di Gandhi hanno preso le mosse molti altri leader che hanno dedicato la propria vita al perseguimento della giustizia per le minoranze di ogni luogo.
Il 28 agosto di quest’anno ricorrevano i 50 anni dalla marcia su Washington guidata dal reverendo Martin Luther King Jr., che aveva solo 34 anni quando pronunciò uno dei discorsi pubblici più importanti e famosi della storia. Il ruolo del pastore protestante fu decisivo non solo in quanto spirito carismatico in grado di sollevare gli afroamericani nel chiedere di cambiare le leggi razziste che li rendevano un popolo segregato, ma anche (e forse soprattutto) nel sedare gli animi più bollenti, nell’organizzare la protesta senza mai perdere di vista il fatto che manifestare è giusto, ma usare la violenza non lo è mai. La situazione era già calda prima che la figura di King emergesse dal profondo Sud degli Stati Uniti, i presupposti per una rivolta violenta c’erano tutti. Ma gli strumenti della repressione erano pronti, e l’amministrazione bianca aspettava la prima scintilla per far passare per barbari incontrollabili gli stessi uomini e donne che col loro lavoro duro e paziente avevano contribuito al benessere del Paese (o meglio di una sua parte).
Invece la rivolta non ci fu, gli scontri furono ridotti al minimo, ogni violenza fu condannata dal leader della protesta, e i risultati arrivarono. L’atteggiamento pacifico del movimento per i diritti degli afroamericani mise alle strette l’amministrazione di John Fitzgerald Kennedy, che ancora non si era occupata del tema della discriminazione razziale, al punto che il presidente decise di appoggiare il movimento e il 19 giugno 1963 inviò al congresso il testo del Civil Rights Act, una legge che se approvata avrebbe reso illegale gran parte delle forme di discriminazione in vigore al Sud. Il tentativo (fallito) era anche quello di evitare che si svolgesse la marcia in programma per la fine di agosto.
Sono storie difficili e dolorose quelle che si accompagnano ai principi della nonviolenza, che si commemorano oggi, in coincidenza con la data di nascita di Gandhi. Storie di coraggio e spesso di successi. Non clamorosi e immediati, come sempre cercano di apparire quelli ottenuti con la guerra, le invasioni, gli interventi militari (perché il potere prima colpisce e poi, in ogni caso, legittima il proprio operato); bensì lenti e progressivi, ma inesorabili. Come quelli ottenuti da Aung San Suu Kyi, che con Martin Luther King Jr. condivide l’assegnazione del premio Nobel (quest’ultimo nel 1964, San Suu Kyi nel 1991). La dissidente birmana (la cui storia è raccontata nel film The Lady) è stata detenuta agli arresti domiciliari dal 1990 al 2010, in una logorante sfida tattica tra lei, amata dal popolo per cui si batteva, e la dittatura militare che ancora oggi opprime il Paese asiatico, che avrebbe voluto eliminarla con i metodi classici di ogni dittatura, ma si è sempre trattenuta dal farlo per evitare la condanna internazionale. Una protesta che non si è riversata per le strade, ma è rimasta in uno spazio confinato e ristretto. Anni di detenzione, di rinuncia alla propria libertà per fare in modo che centinaia di migliaia di altre persone potessero sperare, un giorno, di riavere la propria. Ecco perché, svuotando questa commemorazione da ogni retorica, vogliamo dedicare la giornata di oggi a tutti i dissidenti del mondo che con la loro protesta pacifica, disarmata, caparbia e giusta continuano a dare corpo ai principi della nonviolenza.