Il 12 febbraio è scomparso lo storico Giuseppe Galasso. Il collega Luigi Mascilli Migliorini gli dedica un ritratto sulle pagine della Domenica del Sole 24 Ore di ieri. Riportiamo di seguito la prima parte dell’articolo.

A che cosa serve la storia? Nello scorso mese di ottobre Giuseppe Galasso tornava a farsi la domanda di tanti prima di lui, la domanda che viveva ancora in lui, la domanda che certo, prorompente o sommessa, apparteneva al pubblico che quel giorno, a Napoli, nel palazzo Filomarino, nell’antica dimora di Benedetto Croce, lo ascoltava: i giovani allievi del nuovo anno accademico dell’Istituto italiano per gli studi storici. E spiegava, come aveva spiegato Croce, che la storia serve per sollecitarci all’azione, perché chiuso il libro che abbiamo appena finito di scrivere, o abbiamo finito di leggere, più forte e più chiara sia la nostra volontà di agire nel presente in cui viviamo, l’unico campo –non il passato, non l’avvenire- in cui possiamo esercitare il nostro diritto e il nostro dovere a essere uomini.

Non una funzione narrativa (Hayden White è stato uno dei suoi interlocutori più problematici), non una funzione sociale (sempre perplesso di fronte a un arruolamento tra le scienze sociali), ma una funzione morale. La storia è morale in azione, avrebbe potuto dire con le parole di uno di quei vecchi scrittori dell’Ottocento che, come Croce egli amava sempre rileggere. Già, Croce: di cui dire che è stato il suo maestro non vorrebbe dir nulla o quasi. Il loro rapporto era quello che Croce aveva affidato, per dedicarli a Thomas Mann, ai versi danteschi che aprono la sua Storia d’Europa, «Pur mò venian li tuoi pensier tra i miei». E, quindi, un dialogo permanente, in cui le parti si rovesciavano con facilità, perché, dalla certezza di una intesa così forte e profonda, Giuseppe Galasso traeva la forza di ridiscutere, riaggiornare il senso del loro rapporto via via che il tempo scorreva e ne mutava inevitabilmente i termini. Sicché non è esagerato dire che senza il continuo dialogo mantenuto con lui per più di mezzo secolo da Giuseppe Galasso noi tutti non guarderemmo a Benedetto Croce con quell’interesse e quell’attenzione che abbiamo appreso.

Una volta compreso questo, compresa la storia come moralità e, quindi, la sua intrinseca tragicità, nel significato letterale del termine, cioè unico teatro sul quale è possibile esercitare la libertà del proprio spirito e pagare le conseguenze dei propri limiti o dei propri errori, tutto, nella vita di Giuseppe Galasso, così ricca, così generosa, si dispiega con chiarezza. Dal suo inizio, o quasi, in quella Napoli nel cui cuore più intimo, tra strade strette e vecchi palazzi, egli è nato. Ed era una ricorrente emozione sentirlo raccontare dei minuti affanni della città sofferente che egli aveva conosciuto da bambino prima e da adolescente, poi, negli anni della guerra. E ti pareva di vederla quella Napoli fatta di campagne che si raggiungevano con la facilità delle gambe di un giovanotto capace di salire su fino a un Vomero allora verdeggiante e scendere poi giù verso il mare di Coroglio, in compagnia spesso di quella che sarebbe diventata sua moglie e che noi, allievi timorosi, abbiamo poi imparato a chiamare donna Elena. E capivi perché egli non solo non aveva mai abbandonato Napoli, ma non aveva mai avuto la tentazione di farlo. Perché Napoli, città millenaria di dolore e di ingiustizie, era il teatro che gli era stato consegnato per recitare la parte che egli, passeggiando tra i campi, destreggiandosi tra i vicoli, già un po’, forse, si figurava.

E così può dirsi del suo impegno – come chiamarlo? – civile, pubblico, politico che altro non è stato, nella varietà delle sue prove, che il rendersi concreto di quel gesto iniziale, di quell’idea che tutti, e gli storici non più ma non meno degli altri, abbiamo, se viviamo e finché viviamo il diritto-dovere del presente. E non è, forse, un caso –come qualcuno in questi giorni ha osservato- che tra i non pochi storici italiani che si sono misurati con la politica egli abbia, tra i pochi invece, raggiunto uno straordinario risultato: la legge del 1985 che porta il suo nome e che fa del paesaggio non un astratto figlio della natura, ma un figlio della storia, affidato, quindi, alla responsabilità storica delle generazioni che, ogni volta di nuovo, devono interrogarsi su cosa vogliono ricordare e cosa vogliono dimenticare e hanno la responsabilità di ciò che distruggono e di ciò che conservano.

E lo stesso vale della sua infaticabile attività giornalistica (ricordo di averlo visto una sera, durante un ricevimento, scrivere in piedi, appoggiato ad una parete della sala l’articolo che aspettavano in redazione) esercitata non con il sopracciglio alzato dello storico rispetto alle facili, volgari penne della carta stampata, ma, al contrario con il rispetto per quel pilastro della società liberale che è la libera stampa, devoto sacerdote di quella “preghiera del mattino” che, diceva Hegel, è il giornale per l’uomo moderno.

E vale per il suo magistero intellettuale, per il professore come era per tutti. E a chi azzardava un «maestro», rispondeva con meraviglioso e sornione orgoglio «maestro elementare», ricordando i suoi primi passi, quelli di una lunga “gavetta” che lo aveva, allora, portato alla conoscenza ravvicinata di luoghi e persone di un Mezzogiorno degli anni Cinquanta che egli avrebbe poi raccontato in mille forme nella sua struggente solitudine e nella sua non meno struggente voglia di essere altro. […]

(Foto di Bruno Cordioli su flickr)