Un articolo di Carlo Mazzini, dal suo blog Quinonprofit.it, racconta alcune sue riflessioni sulle proposte relative all’imminente legge sul terzo settore e sui relativi emendamenti che ne stanno definendo (o forse confondendo) i contorni.
Nella lettura – devo dire non entusiasmante – degli emendamenti, si comprende che alcuni senatori hanno ragionato e si sono applicati, altri brancolano nel buio peraltro in buona compagnia con tanti colleghi deputati. Non faccio classifiche o esempi, ma faccio un passo indietro su un tema di fondo che non è mai stato affrontato.
Alcuni emendamenti riscrivono la definizione di soggetti del terzo settore, chi in un modo, chi in un altro. Ma se nella definizione degli enti del Terzo settore si legge che devono essere senza scopo di lucro e non abbiamo un’idea comune – giuridicamente fondata, peraltro – di cosa si intenda per “assenza di scopo di lucro”, di cosa stiamo a parlare?
Fermo restando che non stabiliscono il vero significato di assenza di scopo di lucro, alcuni emendamenti propongono di definire i settori di utilità sociale individuandoli in quelli riportati nella legge sull’impresa sociale. Solo per questo bisognerebbe collezionare amuleti apotropaici, ma a parte questo, centrano il problema anche se non la soluzione: ci chiediamo: abbiamo dei metri (che deve darci la politica, intesa come legislatore) per dire che un certo settore di attività è di utilità sociale (es. Onlus) e un altro non lo è?
Siamo certi che attività degli scacchisti – hobbistica per definizione – sia da eliminare dalle attività di utilità sociale? L’ente Scacchisti di Capracotta (Isernia) quando usciranno i decreti legislativi sarà un ente del terzo settore o no? Lo capisce anche un cretino che non debba avere le stesse agevolazioni riconosciute a chi assiste persone con disabilità gravi, ma ad oggi quell’ente è un ente non commerciale, un’associazione non riconosciuta, un ente di minore “utilità sociale” rispetto ad altri e per questo gode di alcuni vantaggi fiscali pur non potendosi “elevare” ad Onlus. Il fatto che il relatore Lepri intenda eliminare le Onlus per realizzare un sistema omogeneo di agevolazioni, quindi un sistema dentro/fuori, in/out, mi sembra fuorviante.
O stai dentro o stai fuori. Avete mai visto qualcosa in Italia che abbia questa chiarezza, questa pulizia dei confini?
Pertanto, pensare che il nostro legislatore delegato sappia scrivere una norma che mette paletti e steccati invalicabili tra ciò che è terzo settore e ciò che non lo è mi sembra assurdo, e poco conveniente – ammesso e non concesso che sappia farlo – in quanto vorrebbe eliminare una caratteristica della nostra legislazione non profit che afferma che:
a. a seconda delle modalità di erogazione dei servizi
b. a seconda delle tipologie di attività
ti premio di più, ti premio di meno, concedendoti di volta in volta più o meno agevolazioni.
Certo che è un mare magnum spesso confuso, ma permette di costruire steccati più sicuri per un perimetro più ridotto dell’area che non è più il “terzo settore”, ma quello che fa attività di utilità sociale acclarata.
E in più, scusate, cosa succede agli enti che sono fuori dal Terzo settore? Gli scacchisti di Capracotta cosa diventano? Del quarto settore?
E chi farà parte di questo quarto settore? Le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche?
Lo sanno questi geni che oggi – giustamente – la defiscalizzazione dei corrispettivi da soci è riconosciuta anche alle associazioni di categoria, sindacali e politiche (art. 148, c. 3, Tuir)? Cosa ne fanno di questo articolo?
Non è che fanno leggi ad hoc per le une e per le altre? Vi potete immaginare quali prebende fiscali verrebbero concesse ai partiti (2 per mille), e, in un periodo come quello attuale di contestazione del ruolo del sindacato, quale rischio di fendenti fiscali colpirebbero questo tipo di organizzazioni.
Davvero vedo con sospetto questo ridursi del perimetro del Terzo Settore, in una sorta di spinta darvinista che non ha senso. Tutti sentiamo dire: ma ci sono troppi enti, troppe onlus, troppi iscritti al 5 per mille.
Capiamoci: questo si chiama inanellamento di tre stronzate.
1. Troppi enti? Quanto sono orgogliose le province che ad ogni statistica sul numero di volontari e sul numero di associazioni si trovano in testa alla classifica e i cui rappresentanti spiegano che il territorio è presidiato dagli stessi cittadini, che questo fatto aumenta la qualità della vita ecc.? E quanto sono depressi i territori che mancano di associazioni?
2. Troppe onlus? Chi sa quante sono le Onlus in Italia alzi la mano. Nessuno? Certo, perché l’Agenzia delle Entrate non lo dice a nessuno, e non è possibile sapere al 31 agosto 2015 quante sono le Onlus. Quindi dire “sono tante” o “sono poche” le Onlus è dare aria ai denti, anche perché partiamo da considerazioni legate da impressioni personali. Vorrei io alzare la mano e dire che secondo me sono troppi… i negozi di cartoleria… sotto casa ne ho almeno tre! Cosa dite? È libera imprenditoria? E allora le associazioni? Art. 18 Costituzione: «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale».
3. Troppe organizzazioni iscritte al 5 per mille? In 10 anni, cavolo, i politici hanno avuto tempo di scrivere norme e regolamenti sulla base di un’esperienza ormai lunga e ricca. Non l’hanno fatto e vogliono dire che è colpa di chi si iscrive e che ne ha pieno diritto proprio in base alle norme che i politici hanno scritto?
Fatemi scendere.
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