Il report Istat sugli alunni delle scuole secondarie pubblicato pochi giorni fa non lascia molti dubbi circa il rapporto tra gli studenti italiani e la pandemia: circa due terzi tra loro preferisce la didattica in presenza. Come sintetizza il Post, «il 67,7% degli studenti intervistati ha detto di preferire la didattica in presenza, il 20,4% ritiene equivalenti le due modalità di didattica, mentre l’11,9% predilige la didattica a distanza. C’è però una leggera differenza di genere: una più alta percentuale di ragazze, il 69,5%, ha detto di preferire la didattica in presenza, mentre la stessa risposta è stata data dal 66,1% dei ragazzi». Un’altra differenza che si è registrata è stata quella tra studenti italiani e stranieri. Questi ultimi l’hanno apprezzata maggiormente rispetto ai primi.
Il responso è piuttosto unanime anche sul fatto che la didattica a distanza abbia influito negativamente sui «voti dell’anno scolastico 2020/2021 (34,2% degli stranieri contro 25,7% degli italiani). Il 70,2% degli alunni trova inoltre più faticoso seguire le lezioni a distanza, con differenze contenute tra italiani e stranieri».
Come si temeva, la diversa disponibilità di connessioni stabili ha creato delle disparità: «La metà degli studenti ha detto di non avere una connessione stabile, che ha causato problemi nella partecipazione alle lezioni, mentre il 43,3% degli intervistati ha detto di averne una ottima. In questo caso non sembrano esserci differenze significative tra studenti italiani e stranieri e anche le differenze tra le diverse zone d’Italia sono contenute».
I tentativi di sostenere gli studenti svantaggiati fornendo loro pc e tablet per seguire le lezioni hanno funzionato in parte, ma resta il fatto che «Il 16,8% degli studenti stranieri ha detto di aver seguito le lezioni esclusivamente su smartphone, contro il 6,8% degli studenti italiani. Per i ragazzi cinesi e marocchini l’utilizzo esclusivo del cellulare è stato più elevato rispetto alla media degli stranieri».
Un dato più laterale, ma comunque preoccupante, è che circa la metà degli studenti italiani (50,9%) e il 46,2% di quelli stranieri hanno dichiarato che la frequenza con cui vedono amici e amiche è diminuita rispetto a prima della pandemia. Solo il 18% dice che è invece aumentata, mentre per i restanti è rimasta invariata (30,9% tra gli italiani, 34,9% tra gli stranieri).
Questo dato sembra confermare le segnalazioni raccolte in diversi contesti di giovani studenti che tagliano ogni ponte con l’esterno. «L’associazione Laudes, attiva a Roma da quasi dieci anni, negli ultimi mesi ha registrato un’impennata di richieste di famiglie che chiedono sostegno perché i figli hanno deciso di non uscire più dalla loro stanza – ha scritto Marzia Coronati sul Tascabile –. La prima volta è stata una sorpresa, dice Michelangelo, poi quasi un’abitudine. Gli insegnanti della Laudes offrono il loro aiuto attraverso un pc o parlando di fronte a una porta chiusa, il loro ruolo, con i ragazzi chiusi nelle stanze e con tutti gli altri che si rivolgono all’associazione, è quello di sostenerli nel loro percorso di crescita, facilitarli nella relazione con la scuola, affiancarli nei compiti quotidiani».
Altro dato da tenere sotto controllo nei prossimi anni è quello della dispersione scolastica, su cui la didattica a distanza potrebbe avere un impatto negativo. Secondo l’analisi di Openpolis su dati Eurostat, «L’Italia è il quarto paese [in Europa] dove il fenomeno dell’abbandono scolastico incide di più, dopo Malta, Spagna e Romania. Negli ultimi anni sono stati fatti degli sforzi per ridurre gli abbandoni in Italia: dal 19% del 2009 siamo scesi al 13,5% del 2019. È un dato medio che riflette velocità differenziate. Se nel centro-nord siamo prossimi al 10%, nel mezzogiorno la quota di giovani che abbandonano gli studi è più vicina al 20%».
In realtà uno dei problemi della dispersione scolastica è che è difficile da misurare, come spiegavamo qualche anno fa commentando uno studio di TuttoScuola che parlava di tassi di abbandono ben più alti: «Nelle statistiche ufficiali figurano come abbandoni solo quelli in cui lo studente, con la famiglia, va in segreteria a firmare una dichiarazione di rinuncia agli studi. La stragrande maggioranza di chi interrompe il proprio percorso scolastico, però, semplicemente smette di presentarsi in classe. Oppure, soprattutto a seguito di una bocciatura, si iscrive a una scuola privata (uscendo così dalle tabelle di TuttoScuola, che si occupa solo di scuole statali), dove mediamente ci si diploma più facilmente».
La cosa è favorita dal fatto che «Nonostante l’obbligo scolastico sia fino ai sedici anni – scrive Coronati –, chi decide di non frequentare più la scuola lo può fare senza particolari conseguenze immediate, formalmente dovrebbe partire una segnalazione ai servizi educativi e sociali, però non esiste nessuna sanzione per le famiglie».
I dati ufficiali inoltre mascherano anche la dimensione del problema al centro-nord: «Prima della pandemia la Regione Emilia-Romagna aveva raccolto un dato allarmante: uno studente maschio straniero con reddito basso su due non arrivava all’ultimo anno delle superiori. Nei mesi successivi all’inizio della pandemia si è affermata una dispersione diversa, da ritiro sociale, anche i ragazzi più insospettabili, provenienti da famiglie che credono nella scuola, smettono di fare sport, di uscire con gli amici, e chiudono il loro orizzonte».
(Foto di marco fileccia su Unsplash)
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