C’è una malattia sulla quale si è persa molta attenzione negli ultimi anni, forse perché non è più in rapida espansione come un tempo, forse perché le cure sono meno invasive e più efficaci e quindi è calata la paura. Si chiama Aids, e in Italia nel 2014 si sono registrati 3.695 nuovi casi di contagio (dati dell’Istituto superiore di sanità). Se ne parla poco, dicevamo, perché è un fenomeno ormai stabile, ed è stata superata l’emergenza degli anni ’80 e ’90, quando la principale fonte di contagio era lo scambio di siringhe infette tra tossicodipendenti. Oggi il consumo di droghe per via endovenosa è molto diminuito, a favore di sostanze che si assumono per vie meno cruente, e quindi l’allarme è rientrato. Questo ha fatto sì che, nonostante le campagne di sensibilizzazione e l’attivazione di sportelli informativi, sia cambiata la percezione intorno all’Hiv/Aids, soprattutto in merito all’importanza di avere rapporti sessuali protetti e comunque effettuare periodicamente il test.

Sempre secondo i dati raccolti dall’Iss, la maggior parte dei nuovi casi riguarda chi ha eseguito il test Hiv pochi mesi prima della diagnosi di Aids (seppure sia diminuita rispetto al 2013 la quota dei soggetti che si presentano in fase avanzata). Ciò vuol dire che molto spesso le persone si rivolgono alle strutture mediche perché insospettiti dai sintomi, il che vuol dire che il virus è stato contratto anni prima, è rimasto nell’organismo in forma “dormiente”, cioè senza sintomi, per poi sviluppare l’Aids, ossia la vera e propria compromissione del sistema immunitario, per la quale al momento non esiste una cura che sia in grado di far guarire completamente il paziente.

Ricordiamo che per ogni tipo d’informazione c’è a disposizione la consulenza di Lila, Lega italiana per la lotta contro l’Aids, sul cui sito sono presenti tutte le informazioni per fare il test, che è gratuito nella maggior parte delle strutture pubbliche (alcune richiedono il ticket). Per quanto riguarda i donatori di sangue, il test viene effettuato d’ufficio a ogni donazione o in occasione degli esami periodici, dunque il monitoraggio è costante, nell’interesse del donatore ma anche di tutta la comunità.

Nonostante siano in aumento le diagnosi in maschi che fanno sesso con maschi, la maggior parte delle infezioni avviene attraverso contatti eterosessuali. Dunque, è sempre bene ribadire, la maggiore o minore esposizione al virus non è legata agli orientamenti sessuali, bensì ai comportamenti sessuali. Chi adotta le precauzioni (ossia l’uso corretto del preservativo) è al riparo dal rischio, indipendentemente dal fatto che la persona con cui ha rapporti sia dello stesso o dell’altro sesso. Nel 2014, scrive l’Iss, l’84 per cento casi di nuove diagnosi è attribuibile a rapporti senza preservativo. Al di là della sessualità che nasce per un’attrazione tra persone consenzienti, c’è però tutto un mondo ai margini, dove il virus si diffonde con molta più facilità, quello della prostituzione. Secondo Fabrizio Pregliasco, presidente di Anpas nazionale e medico specializzato in igiene, medicina preventiva e tossicologia, nonostante ci sia molta più informazione oggi rispetto a un tempo, il numero di nuovi casi non diminuisce ma rimane stabile per due fattori che definisce «paradossali, entrambi riconducibili a una sessualità incongrua da parte degli eterosessuali. Si parla di 40-50enni che sfruttano la prostituzione e di giovani che hanno una vita sessuale molto attiva. In entrambi i casi però si è restii a usare precauzioni. Il motivo sta nella percezione dell’Aids. Non c’è più la paura che c’era all’inizio. Oggi un sieropositivo non è riconoscibile come un tempo, quando la cura la debilitava pesantemente. Un passo avanti scientifico che però ha introdotto un elemento inquietante di sottovalutazione del rischio».

Le armi più efficaci contro l’Hiv/Aids restano dunque l’informazione e l’educazione. Queste ultime sono fondamentali anche per vincere un’altra battaglia, quella contro l’emarginazione e l’isolamento sociale di chi ha contratto il virus. Il silenzio imbarazzato che c’è intorno al virus porta le persone a non parlarne, addirittura a cancellarlo anche dalle cause di morte. Come spiega l’architetto Carlo Bordin, affetto da Hiv dagli anni ’80, spesso quando qualcuno muore di Aids si tende a far credere che la causa del decesso sia un’altra, per il pudore e il senso di colpa che questa malattia porta con sé. Molto meglio invece parlarne ed essere coscienti del pericolo che essa comporta, per evitare che la propria vita sia cambiata da «una disattenzione di pochi momenti, di pochi centimetri», come la definisce Bordin.

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