Da alcuni giorni sulle homepage dei siti web delle principali testate italiane è cambiato leggermente il banner che ci richiede di accettare o rifiutare l’installazione sul proprio dispositivo di cookie di profilazione per poter accedere ai contenuti. Se prima era effettivamente possibile esprimere una scelta, rifiutando i cookie di profilazione e accedendo ai contenuti gratuiti del giornale, ora bisogna per forza accettarli, oppure sottoscrivere un abbonamento per proseguire. Di fatto non esistono più quindi contenuti realmente “gratuiti”, perché la cessione di dati personali in cambio di un servizio non può essere considerata come accesso gratuito a un contenuto.

Detto che non c’è niente di male nel chiedere qualcosa in cambio dell’accesso a un sito d’informazione, la scelta di subordinare la cosa all’accettazione di cookie di terze parti resta discutibile. L’Italia non è il primo paese europeo ad andare in questa direzione. Da tempo testate come Le Monde o Le Figaro, in Francia, adottano politiche simili. Da quelle parti l’autorità per la protezione dei dati personali (CNIL) ha dapprima dato parere negativo ma poi, avendo perso un ricorso, ha dovuto cambiare la propria interpretazione delle norme.

Prima di affrontare il problema giuridico ed etico di tale scelta, è bene chiedersi perché avvenga. La risposta è molto semplice: perché genera maggiori ricavi. «I “cookie” – spiega il Post – sono piccole parti di codice che vengono conservate sul browser di un utente e che vengono utilizzate per diversi scopi, tra cui quello di ricostruire le attività online di quell’utente per mostrargli di conseguenza annunci pubblicitari personalizzati e – almeno teoricamente – basati sui suoi gusti. […] Il motivo per cui ai giornali conviene vendere pubblicità basata sulle preferenze degli utenti, piuttosto che pubblicità generica, è che si vende agli inserzionisti a un prezzo molto più alto: permette infatti di suggerire prodotti che – sempre teoricamente – hanno più probabilità di essere interessanti per la persona che sta navigando sul sito, e quindi di aumentare le possibilità che decida di acquistarli».

Dal punto di vista giuridico, lo spazio per l’interpretazione è dato dal fatto che al momento ci sono due norme europee in vigore sul tema dei dati personali. La più recente, e piuttosto nota, è il GDPR, entrato in vigore a maggio del 2018, che ha un approccio più restrittivo rispetto al consenso rilasciato dall’utente. Al contempo, però, resta in vigore una direttiva del 2002 che parla anche di consenso implicito e in generale prevede interpretazioni più permissive della materia. Il problema, come spiega Gianclaudio Malgieri su Repubblica, è che la direttiva è una legge specifica, ma che a vent’anni dalla sua approvazione inizia a essere piuttosto datata; il GDPR è invece una norma generale, ma redatta con maggiore consapevolezza rispetto ai rischi della commercializzazione dei dati personali.

«Lo European Data Protection Board (il collegio europeo di tutte le autorità garanti privacy nazionali) aveva già nel 2017 rilasciato un parere su questo tema – spiega Malgieri –: se l’utente ha la possibilità di scegliere tra accedere ad un servizio tramite l’accettazione dei cookies e un’alternativa “genuinamente equivalente” che non richiede di fornire dati personali, il consenso è libero. C’è da chiedersi se “pagare” sia una alternativa “genuinamente equivalente”. […] Il maggiore rischio è che i soggetti con meno disponibilità economiche si sentano costretti ad accettare di fornire più dati personali, tramite cookies, piuttosto di accettare servizi a pagamento. Ciò vorrebbe dire che la privacy diventerebbe un “bene di lusso”, appannaggio delle persone con maggiori disponibilità economiche. Ma può un diritto fondamentale essere un “bene di lusso”?».

Come si può vedere, le questioni etiche sono piuttosto profonde e non si può liquidare la questione sostenendo che i giornali, che sono innanzitutto imprese commerciali, sono liberi di fare tutto ciò che la legge consente loro.

Per di più, è dibattuta la reale efficacia degli annunci mirati (del tipo consentito grazie alla profilazione tramite cookie di terze parti) nel garantire un maggiore impatto in termini di clic e acquisti. Si rischia di tenere in piedi un sistema che pone problemi in merito alla protezione dei dati personali al solo scopo di riempire le casse di coloro che lo gestiscono, senza reali vantaggi né per l’inserzionista né tantomeno per l’utente.

(Foto di Franck su Unsplash)

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