Questo 2022 che si sta per chiudere porterà con sé un triste record, quello dei suicidi avvenuti in carcere. Dal primo gennaio al momento in cui scriviamo sono 80 le persone che hanno deciso di togliersi la vita durante la reclusione. Ci auguriamo che il numero non aumenti prima della fine dell’anno, e che questo primato non sia mai nemmeno lontanamente eguagliato o superato in futuro. Sulla prima delle due cose la statistica ci gioca contro. Sulla seconda, il margine per intervenire c’è e quindi, se c’è la volontà, le soluzioni sono alla portata.
Come riporta un’inchiesta realizzata da Repubblica, «Il tasso di suicidi dietro le sbarre è 18 volte superiore a quello del mondo dei liberi. […] Alla statistica aggiornata dei suicidi si aggiungono 81 decessi naturali, 3 decessi accidentali e 27 casi da accertare».
L’articolo fa una ricostruzione di ciò che si è detto, fatto e non fatto negli ultimi anni sul tema dei suicidi in carcere, notando come spesso il dibattito si sia appiattito sul tema del sovraffollamento, come se fosse quello la causa di tutti i mali.
Certo, il sovraffollamento è un tema importante, ma da solo non è decisivo rispetto al numero di suicidi. I numeri lo dimostrano: «Prendiamo gli ultimi quattro anni – spiega l’articolo –. La popolazione carceraria decresce, i suicidi aumentano. Nel 2019 a fronte di una media annuale di 60.522 detenuti, i suicidi sono 54. Nel 2020, a fronte di 53.579 detenuti sono 62. Nel 2021 se ne contano 58. Poi, il 2022. Al 27 novembre siamo già a settantanove suicidi e 1.639 tentativi di suicidio su 54.841 carcerati. Un dato peggiore persino di quello registrato nel 2009, quando si tolsero la vita in 72 e i giornali, pochi, scrissero che era stato raggiunto un non invidiabile record storico».
Da tempo su ZeroNegativo cerchiamo di mantenere accesa la luce della riflessione sui tanti problemi che affliggono il sistema carcerario italiano. Lo facciamo spesso con l’aiuto dei numeri, delle statistiche, per parlare alla testa prima che alla pancia. È un approccio che tendiamo ad avere quando parliamo di qualsiasi tema perché, in un contesto informativo che pone molto l’accento sul lato emotivo, ci sembra utile metterci su un piano diverso, che riconosca la complessità dei fenomeni e l’importanza di verificare le premesse del discorso, prima di avventurarsi in argomentazioni.
Forse però con il carcere avrebbe più senso una strategia opposta. Quando si parla di detenuti è facile che si perda di vista il lato umano della questione, che se ne parli come di qualcosa che deve essere gestito, prima ancora che capito. La temperatura del dibattito scende velocemente, il problema è mantenerla calda al punto giusto.
«Il carcere è così – ha scritto Daria Bignardi, che da anni fa volontariato in carcere –: un posto brutto e pieno di gente che sta male. In più, è un posto inutile. La possibilità del reinserimento sta solo, in rarissimi casi, nella relazione che può crearsi tra un detenuto o una detenuta e qualcuno di fuori, educatore, psicologo, volontario, direttore, medico, magistrato di sorveglianza (può succedere) col quale si instaura un rapporto di fiducia che non si può tradire.
Non chiedetemi “e allora i mafiosi gli assassini i pericoli pubblici dove li mettiamo” perché non lo so. Quel che so è che la maggior parte delle persone che sono in carcere, soprattutto nelle case circondariali, non ci dovrebbe stare, e non serve a niente che ci stia: la loro detenzione è solo una vendetta sociale, un dolore, uno spreco, una fatica, un’esperienza devastante per loro e le loro famiglie e per le famiglie di quelli che devono tenerli in custodia, oltre che un costo a fondo perduto per lo Stato e per noi. Molto spesso, per chi ci entra da giovane, è anche il posto dove si impara a delinquere sul serio».
In carcere, assieme ai criminali, ci sono tante, troppe persone che hanno semplicemente sbagliato qualcosa nella vita. È giusto che la società preveda una punizione, ma è del tutto ingiusto che questa punizione non porti con sé anche un’opportunità di riscatto. Quindi, per una volta, oltre che sui numeri, vorremmo che vi concentraste sulle storie raccontate in articoli come i due che abbiamo citato e di cui trovate i link più su. C’è tanta umanità dentro, un’umanità che non è diversa da quella di noi che le leggiamo. Le storie di chi sta in carcere spesso sono rovinate dalla sfortuna di essere nati o cresciuti nel posto sbagliato, di avere incontrato le persone sbagliate, di avere ceduto a un momento di debolezza. Se immaginiamo le diverse storie come delle linee, è come se a un certo punto si creasse uno scollamento tra quelli che restano fuori dal carcere e quelli che vi entrano. Quanto duri e quanto si apra la forbice tra le due linee dipende molto spesso da fattori che non dipendono tanto dall’intenzionalità o dalla buona volontà del detenuto, quanto dalla possibilità di riscatto che gli o le viene offerta.
(Foto di Jeremy Perkins su Unsplash)
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