Proprio mentre in Europa e in varie altre parti del mondo le restrizioni legate alla pandemia stanno iniziando a cadere di fronte al miglioramento della situazione sanitaria, la guerra in Ucraina ha interrotto bruscamente il lento cammino verso la “nuova normalità” a cui ci stavamo avviando.
Se anche nelle ultime settimane, comprensibilmente, il tema della pandemia è uscito quasi del tutto dalle pagine dell’attualità, non bisogna infatti dimenticare il costo mentale che essa ha avuto (e avrà) su tutti noi. Interessante in questo senso un articolo del docente e psicologo clinico Steven Taylor pubblicato sul Guardian il 24 febbraio. Si tratta di un articolo che non tiene conto del nuovo scenario politico (e psicologico) determinato dalla guerra, ma risulta comunque utile a non dimenticare che gli ultimi due anni avranno degli strascichi anche dopo che la pandemia sarà dichiarata ufficialmente finita.
«La pandemia ha cambiato tutto delle nostre vite – spiega Taylor –: il modo in cui lavoravamo, socializzavamo, viaggiavamo. Affrontare così tanti cambiamenti tutti assieme è stata una sfida mentale per tutti. Man mano che la pandemia da COVID-19 si esaurisce e le cose tornano alla “normalità”, alcune di queste pressioni si allenteranno e la vita diventerà più simile a quella che conoscevamo. Ma la fine di una pandemia richiederà un processo di adattamento, proprio come il suo inizio».
Per cominciare, spiega Taylor, non stiamo entrando nella stessa “normalità” che abbiamo lasciato, e non siamo le stesse persone che eravamo allora. Alcuni di noi dovranno affrontare persistenti problemi di salute mentale, compresi quelli che hanno sviluppato un dolore grave e cronico per la perdita di persone care, o persone che hanno sviluppato un disturbo da stress post-traumatico a causa di esperienze legate alla malattia.
Durante la pandemia è sbocciato un nuovo lessico di termini psicologici, racconta Taylor. “Sindrome di Cave”, cioè la paura di uscire diffusa tra i vaccinati; “coronofobia”, la paura di prendere il virus; e “sindrome da stress da Covid”. Questi neologismi hanno aiutato le persone a capire meglio le loro esperienze e quelle di chi le circondava. Avendo svolto il loro scopo, probabilmente saranno sostituiti da termini psichiatrici più convenzionali una volta che la pandemia sarà finita: “agorafobia”, “disturbo di adattamento”, ecc.
Un elemento importante da considerare è che le pandemie non hanno una fine netta e chiara. Potrebbero volerci mesi affinché alcune persone si convincano che la pandemia sia veramente finita (quando questo avverrà), e ancora di più per alcuni per tornare a praticare con rilassatezza attività che sono state rischiose per due anni.
In molte persone potrebbe montare il sospetto che la “fine” della pandemia sia una costruzione politica. Con l’arrivo della stanchezza da pandemia, la gente è diventata sempre più stanca e frustrata dalle restrizioni governative sui viaggi e sulla socializzazione. La crescente stanchezza nei confronti del Covid motiva alcune persone, specialmente quelle che vedono la minaccia come esagerata, a protestare contro le restrizioni rimanenti.
Lo scenario di “festa post-pandemia” previsto da alcuni è dunque piuttosto improbabile. Ancora di più ora che la “nuova normalità” è segnata da una guerra così vicina, che sta causando centinaia di morti e milioni di profughi.
Secondo Taylor ci sarà forse un momento di euforia quando l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiarerà che saremo entrati in un “periodo post-pandemico”. Tuttavia è bene ricordare che l’Oms ha fatto dichiarazioni errate in proposito in passato: per esempio, nel 2015 e nel 2016 ha dichiarato erroneamente che un’epidemia di Ebola era finita, azzeccando solo la terza volta. Il coronavirus continuerà comunque a circolare e a un certo punto le persone dovranno decidere in autonomia, in base alla loro tolleranza al rischio, se indossare le mascherine, andare a incontri sociali affollati e così via. Questa condizione di incertezza richiederà un adattamento, proprio come successo durante alla fine delle pandemie passate, come l’influenza russa del 1889 e quella spagnola del 1918.
Nei mesi e anni a venire, l’eredità emotiva del Covid diventerà più chiara, sostiene Taylor. Il costo per la salute mentale potrebbe non essere evidente per alcuni anni. Tuttavia, la ricerca suggerisce che la maggior parte delle persone si riprenderà, e alcuni cresceranno come esseri umani: un fenomeno noto come crescita post-traumatica. Questo comporta una maturazione attraverso le avversità, in cui le persone imparano a diventare più resilienti e sviluppano un apprezzamento più profondo per le cose quotidiane della vita, come i legami con gli amici e la famiglia.
«La pandemia ci ha anche insegnato l’importanza di sviluppare la resilienza, cioè la capacità di gestire i fattori di stress, grandi e piccoli, nella nostra vita – conclude Taylor –. La resilienza può essere un’eredità positiva di un paio di anni molto difficili».
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