La storia della ricercatrice ed ex parlamentare Ilaria Capua, accusata e poi prosciolta dall’accusa di aver tramato per la diffusione di un’epidemia, dice molto di come in Italia siamo particolarmente bravi a “liberarci” dei nostri elementi migliori, per consegnare le loro capacità a qualche istituto di ricerca estero. Fa un certo effetto leggere le dichiarazioni di Capua del 2011, quando le fu assegnato il Penn Vet Leadership Award, e quelle di oggi, quando si è trovata costretta a lasciare l’attività politica e di ricerca nel nostro Paese per andare dove qualcuno è in grado di riconoscere il suo valore.

Allora, nel 2011, le sue parole potevano essere il migliore “spot pubblicitario” per la ricerca italiana: «Non è vero che non si possono realizzare cose importanti in Italia, e non è vero che non si possano fare con i limiti delle strutture pubbliche. Io ce l’ho fatta. Tutti possono farcela», diceva in un’intervista con Riccardo Luna. E poi rincarava la dose: «Sono partita dieci anni fa con un gruppo di otto persone, tutti dipendenti pubblici, ora siamo 70 e siamo un gruppo leader a livello mondiale. Ho un iraniano una canadese una messicana. E negli ultimi cinque anni abbiamo raccolto 12,5 milioni di euro per la ricerca». Fino ad arrivare a una dichiarazione più articolata e di buon auspicio per tutto il mondo scientifico italiano: «Se io, veterinario che lavora presso uno struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sono stata in grado di accendere un dibattito che ha toccato l’assemblea mondiale della sanità, criticando apertamente un sistema poco trasparente che di fatto rallentava la ricerca, a vantaggio di una raccolta di dati e di analisi degli stessi aperta e interdisciplinare, beh, sono sicura che in altre discipline ci sono colleghi preparatissimi, con idee innovative, che possono rompere gli argini e far prendere alla ricerca italiana una direzione che ci porti ad essere partner e leader nella scienza che conta».

Il dibattito a cui si riferisce Ilaria Capua è quello che ha seguito la sua scelta di condividere in un database aperto la sequenza relativa al virus dell’influenza aviaria, negli anni in cui esso stava mettendo a rischio l’economia di interi Paesi e la salute dell’uomo. Nonostante le pressioni a condividere quei dati su un database ad accesso limitato (15 laboratori), Capua decise di fare di testa propria: «Io allora dissi solo: di fronte ad una emergenza sanitaria non possono lavorare solo 15 gruppi, dobbiamo lavorare tutti insieme». Alla carriera scientifica si è poi affiancata quella politica, e Capua viene eletta nel 2013 alla Camera tra le file di Scelta Civica.

Poco dopo, nel 2014, cade su di lei la scure di una campagna di delegittimazione che in poche ore vanifica il prestigio guadagnato in anni di lavoro. Il settimanale L’Espresso entra infatti in possesso di informazioni relative a un’indagine a carico di Capua – secondo la quale questa avrebbe cercato, anni prima, di diffondere un’epidemia per poi guadagnare dalla vendita di vaccini – e ne pubblica i contenuti con toni molto duri nei confronti della scienziata e dei presunti complici. Un’accusa gravissima, per la quale non è prevista la prescrizione. La stessa Capua venne a sapere dell’indagine attraverso la stampa, ritrovandosi schiacciata in un ingranaggio da cui si sarebbe liberata solo due anni dopo, col proscioglimento da tutti i capi d’imputazione. Le sue parole pubblicate più di recente, riportate in un’intervista del 26 ottobre col direttore del Foglio, Claudio Cerasa, restituiscono la disillusione di chi si è trovato all’improvviso a dover concentrare tutte le proprie energie su accuse assurde e infamanti, in una dinamica che ribaltava ogni principio costituzionale sulla presunzione d’innocenza per l’imputato, trasformandolo in presunzione di colpevolezza.

«Attraverso la mia storia ho capito molto non solo di che cos’è la giustizia italiana ma anche quali sono alcuni meccanismi che in un certo senso giustificano tutti coloro che scelgono di andarsene all’estero. […] Nessuna procura mi aveva mai notificato un avviso di garanzia per informarmi di questa nuova indagine. Qualcuno però si era premurato di informare un giornalista. […] in poche ore hanno distrutto la mia vita, la mia reputazione. Hanno massacrato il mio gruppo di lavoro, un gruppo di eccellenza, un gruppo di ricercatori formato da 70 persone».

Di fronte all’impossibilità di lavorare con serenità, sia in politica sia nella ricerca («Decido di non andare più in Transatlantico, per la vergogna. Quando proprio ci devo passare faccio solo i corridoi laterali, per evitare di farmi vedere da qualcuno. Entro ed esco solo dalle porte laterali della Camera. Ero arrivata al punto di vergognarmi anche di camminare per strada»), Capua si trova costretta a rimangiarsi tutte le parole di speranza e motivazione riguardo al fare ricerca in Italia, e infatti oggi si trova a Orlando, in Florida, a fare ciò che un tempo faceva nel nostro Paese.

L’equilibrio tra giustizia e politica è delicato e mutevole, a periodi alterni l’una prevale sull’altra, in un rapporto i cui pesi cambiano continuamente. In tutto questo, la stampa svolge un importante ruolo che potrebbe essere di “ago della bilancia”, nel garantire che le persone sappiano ciò che si deve sapere, e che al contempo i diritti dell’indagato siano tutelati. Invece la dialettica tra giustizialismo e garantismo si combatte ogni giorno proprio sulle pagine dei giornali. C’è chi si situa saldamente in una delle due tifoserie, chi cambia atteggiamento secondo convenienza. Sarebbe utile tornare ai codici, a partire dalla Costituzione, per finire sui documenti di deontologia professionale, affinché in futuro non ci si trovi a dover raccontare la storia di un’altra Ilaria Capua.

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