La tecnologia influisce ormai profondamente sulla cultura umanistica, dalla formazione di base alla ricerca avanzata; ne riscrive obiettivi e linguaggi, arrivando a porsi come fine o centro del discorso culturale. Ne L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia, uscito per Carocci, il filologo Lorenzo Tomasin riflette sui pericoli di una diffusa idea ingegneristica di lingue, storia e cultura, proponendo un’alternativa non tecnofobica all’oltranza digitale. Pubblichiamo un estratto dalle conclusioni del volume.
Nella storia del linguaggio pubblicitario, una fase tipica del secolo scorso fu quella in cui alcuni prodotti – ad esempio, quelli alimentari – cercavano di dissimulare la propria vicenda di produzione industriale presentandosi come del tutto paragonabili ai preparati tradizionali, pur se evidentemente realizzati con procedure diverse.
L’obiettivo di tanta parte dell’industria dei beni di consumo consisteva, in effetti, nella confezione di oggetti che, pur non essendo naturali, o tradizionali nei processi di fattura, apparissero indistinguibili da quelli preindustriali ed esibissero tale carattere come un contrassegno di esaltante modernità. Nella comunicazione commerciale, dichiarare che qualcosa non era naturale ma appariva tale produceva un effetto positivo nella mente del consumatore. Pronto a comprare e a mangiare qualsiasi cosa, purché sembrasse ciò che non era: il prodotto industriale proveniva così, nel messaggio pubblicitario, dalle mani di un’improbabile contadina e l’alimento confezionato era collegato all’implausibile lavorìo di una massaia nella sua cucina domestica o di un operoso e arcaico mugnaio.
Una simile strategia di produzione – e, quindi, di comunicazione – è stata sopravanzata in epoca più recente da un’altra, piuttosto diversa: la tendenza, cioè, a esaltare gli elementi realmente naturali dei prodotti commerciali e a valorizzare non ciò che è affine alla natura, ma ciò che evita, per quanto possibile, il ricorso all’artificialità industriale. Dalla capacità di imitare la tradizione, l’accento della comunicazione si è spostato, seguendo la sensibilità dei consumatori o forse orientandola, verso l’apprezzamento di ciò che è davvero naturale o che si riallaccia concretamente alla tradizione, pur senza rinunciare a un’ormai inevitabile quota di artificialità: è il caso del prodotto che non dev’essere semplicemente indistinguibile dal suo corrispondente tradizionale, ma appunto realizzato con gli stessi ingredienti, convocati direttamente da una realtà preindustriale.
Vi è una singolare somiglianza tra questo processo e quello a cui stiamo assistendo. Molti degli strumenti informatici di cui siamo circondati oggi hanno un peculiare rapporto con supporti di lettura, scrittura, conservazione o elaborazione della conoscenza. Nel senso che li imitano e si sforzano da qualche tempo di riprodurne sempre più fedelmente alcuni caratteri.
Quando non ne possono adottare le forme, ne ripetono i nomi: cosicché ad esempio book e notebook, “libro” e “quaderno”, sono diventate le denominazioni più comuni per oggetti che non sono né libri, né quaderni, ma ricordano la forma dei libri e il loro movimento nell’aprirsi e nel chiudersi lungo un lato (anche se il verso di apertura evoca piuttosto il gesto tipico dell’analfabeta, che apre il libro a rovescio perché non ne decifra il contenuto). L’impiego finale dell’oggetto ricorda, nella postura, quello del leggio, cui evidentemente s’ispira.
Simili imitazioni degli oggetti della lettura e della scrittura tradizionali non hanno peraltro la forma dei prodotti tecnologici tardonovecenteschi, che in principio riprendevano nell’aspetto piuttosto altri elettrodomestici di generazione anteriore.
Nel tentativo di conquistare l’attenzione dell’homo legens (e scribens, insomma cogitans), il dispositivo digitale si è di recente impegnato in una rincorsa all’imitazione sempre più accurata dell’effetto prodotto da pratiche tradizionali. Sembrano pagine, perché delle pagine hanno il colore, la forma, il modo di riflettere la luce, persino il fruscio quando le volti. Riproducono, con una tecnica piuttosto sofisticata (si chiama e-ink), addirittura le fattezze dell’inchiostro. Sembrano ciò che non sono.
Un simile sforzo ricorda l’atteggiamento tipico di una produzione – e di una comunicazione commerciale – basata su concetti ormai datati. Ma la corsa all’emulazione fa già sentire l’affanno di chi prima o poi si ferma e si arrende, sopraffatto da chi non cerca semplicemente l’imitazione di qualcosa. Perché pretende di riavere quella cosa. E di lasciarne l’imitazione a chi quella cosa non si può permettere, per indigenza o per insufficienza culturale.
Già oggi, in effetti, l’accesso mediato dalla tecnologia ad alcune nozioni è divenuto la modalità tipica di una sorta di nuovo proletariato tecnologico: la massa di chi, non potendo o non volendo attingere a una conoscenza diversa da quella veicolata dal torpore digitale, è costretto a fare di quest’ultimo la porta di accesso privilegiata, se non unica, alle proprie esperienze intellettuali. Così, i maestri che un tempo ricevevano nelle loro classi bambini che a casa non avevano quasi alcun libro – o non ne avevano affatto – vedono oggi arrivarne altri che i libri hanno eliminato in favore dell’accesso esclusivo, e spesso continuo, a diversi supporti di lettura e ad altre fonti di informazione.
In uno scenario tale, se vogliamo usare ancora una volta il linguaggio come rivelatore di tendenze – parole come “digitale”, “virtuale”, “tecnologico” vanno forse perdendo tutta la loro fascinante carica di novità, trasformandosi nei cascami già avvizziti di un esperimento balenato come eldorado di nuove ricchezze mentali, e risoltosi in una campagna di avvilente omologazione.
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Foto di James Tarbotton su Unsplash