8 anni per arrivare al terzo grado di giudizio. Questa la durata media del processo civile in Italia, dato che ci condanna all’ultimo posto nella classifica dei 34 Paesi Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). La media del campione considerato è invece di 788 giorni, poco più di due anni (tenuto conto delle differenze tra i diversi ordinamenti giudiziari), un tempo decisamente più ragionevole. L’Ocse identifica diversi aspetti di debolezza del sistema che determinano la situazione attuale: innanzitutto l’inefficienza organizzativa dei tribunali. Digitalizzazione e informatizzazione sono obiettivi ancora lontani in strutture che si reggono principalmente sulla carta. Negli anni sono state annunciate da più parti riforme che avrebbero dovuto rivoluzionare il sistema, rendendolo sempre più “leggero”, ma, come si suol dire, le chiacchiere stanno a zero di fronte ai dati raccolti.

Non sta quindi nella mancanza di risorse il problema, tant’è che l’Italia destina alla giustizia lo 0,2 per cento del pil, tanto quanto la Svizzera (dove i processi civili durano in media 368 giorni, poco più di un anno). E proprio di pil ed effetti sull’economia ha parlato il vicesegretario generale dell’Ocse Pier Carlo Padoan, affermando che «Gli interventi in questo campo ridurrebbero il costo di fare impresa e quello del credito» con benefici complessivi per tutto il sistema economico. Il peso di una giustizia civile inefficiente «può arrivare all’1 per cento del pil. Se la giustizia civile non funziona, c’è minore concorrenza e minore fluidità nel mercato del lavoro: per capirci, il credito disponibile scende dell’1,5 per cento ogni dieci processi pendenti su mille abitanti, mentre il costo del credito aumenta del 16 per cento se si passa da un distretto giudiziario con durata dei procedimenti più bassa a uno dove la durata è più alta».

Tra i rimedi proposti dall’Ocse vi è anche la riduzione della litigiosità. In Italia si registra infatti il 10 per cento di nuovi casi in eccesso rispetto a quelli risolti ogni anno. Dal 1990, cioè, i casi in fase di procedimento sono in continuo aumento, il che sta portando il sistema al collasso. Se la litigiosità diminuisse del 35 per cento (ovvero se si andasse verso una risoluzione dei conflitti con procedure rapide come la mediazione), l’Italia scenderebbe al livello degli altri Paesi considerati dall’Ocse, riducendo la durata media dei processi civili del 10 per cento. Ma per fare questo è necessario un impegno da parte del governo e del Parlamento, perché «una buona qualità delle leggi e una tempestiva attuazione delle politiche pubbliche sono fattori che incidono positivamente sul grado di conflittualità tra i privati e tra cittadini e imprese e lo Stato». C’è chi dice che le novità introdotte con il decreto “Fare” avranno un effetto positivo «sia in termini di organizzazione degli uffici giudiziari sia sul piano delle regole processuali», ma intanto da ieri è in atto uno sciopero della categoria degli avvocati con un’adesione attorno al 90 per cento e dalla durata record prevista di una settimana. Che si tratti di una protesta legittima o di un atteggiamento corporativo, tutti questi giorni di stop andranno ad aggravare le statistiche di cui siamo tristemente protagonisti.

Al di là dei singoli episodici provvedimenti, è la confusione burocratica a dover essere combattuta con armi di lungo periodo, visto che, per dirla con Sergio Rizzo, in Italia per ogni legge che semplifica ce ne sono quattro che complicano: «Un documento appena sfornato dall’ufficio studi della Confartigianato diretto da Enrico Quintavalle racconta che dal 2008 a oggi sono state approvate 491 norme tributarie, delle quali 288 hanno reso la vita più difficile alle imprese, contro le 67 che invece sulla carta le semplificavano. Bilancio: 4,3 complicazioni per ogni semplificazione».