di Federico Caruso

I nativi digitali non esistono. La generazione che solo un paio di decenni fa si iniziava a immaginare, fatta di giovani “naturalmente” portati verso la conoscenza dell’informatica e del funzionamento degli apparati tecnologici, probabilmente non esisterà mai. Al contrario, lo sforzo di chi ha progettato i device che utilizziamo ogni giorno è andato proprio verso una progressiva semplicità di utilizzo, data da interfacce sempre più immediate e intuitive. In questo modo, anche chi non sa nulla di informatica può utilizzare dispositivi al loro interno molto complessi e potenti. Mentre usa interfacce molto avanzate, che interpretano (e guidano) le sue scelte, l’utente è completamente ignaro di come le risorse all’interno del dispositivo siano messe in funzione per ottenere il risultato che egli sta cercando.

Se proprio vogliamo individuare una generazione di “nativi digitali”, forse possiamo situarla tra i nati verso la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 del secolo scorso. Avvicinarsi a un computer a metà degli anni ’80, per chi ha avuto la fortuna di farlo (come chi scrive), voleva dire confrontarsi a un livello molto più “immediato” con le risorse della macchina che si aveva di fronte. C’erano il case, lo schermo e l’imprescindibile lettore dei floppy disk. Accendendo un computer, ci si trovava di fronte a un ambiente esclusivamente testuale, dove il sistema operativo più diffuso (Ms-Dos di Microsoft) doveva in alcuni casi essere caricato direttamente dal “dischetto” esterno, perché spesso i computer non avevano un’unità di memoria interna. Una volta avvenuto il caricamento, la ricompensa per l’attesa era un cursore lampeggiante. Bisognava immettere dei comandi affinché qualcosa succedesse. Potevano essere anche molto semplici, giusto il necessario per avviare (da altri floppy) un gioco o un programma. Con qualche nozione in più si potevano esplorare le cartelle, spostare e cambiare nomi ai file, ottimizzare l’impiego della memoria volatile del sistema.

Quei computer istigavano ancora l’utente a essere un hacker. Nelle sue varie accezioni, questo termine infatti ne ha anche una positiva. Hacker è chiunque, mosso dalla curiosità, si addentra nell’esplorazione e nella scoperta del funzionamento profondo di un certo dispositivo (che sia una radio, un frigorifero o un computer). E studiandolo diventa capace di ripararlo, oppure di espanderne o personalizzarne le funzioni. Per estensione, questo significato si può applicare anche ai software. Ci sono tante sfumature neutre, prima di arrivare alla figura stereotipata del nerd informatico intento a riempire di gattini il sito della Casa Bianca o rubare (e pubblicare) le identità degli abbonati a qualche sito a luci rosse. Tornando al nostro utente medio, nel corso del tempo la sua esperienza con la tecnologia è diventata sempre più semplice, e sempre meno consapevole.

A partire dagli anni ’90, Apple e Microsoft hanno fatto grandi sforzi per sviluppare interfacce grafiche e non testuali (grazie anche al parallelo miglioramento delle prestazioni dei computer, che diventavano anche più economici). Un passaggio epocale è stato segnato dalle prime versioni di Windows fatte per caricarsi automaticamente all’avvio (Windows 95 per la precisione). Da quel momento, all’avvio del computer l’utente era proiettato in un ambiente grafico e non testuale. Le sue interfacce di riferimento, invece della coppia cursore-tastiera, diventavano la coppia cursore-mouse. Invece di scrivere comandi alla tastiera, da quel momento bastava portare il cursore sul pulsante “Start”, e poi orientarsi nei vari menu. Dietro il “velo” dell’interfaccia, che negli anni è diventato sempre più piacevole e accattivante, il computer (e oggi il tablet, lo smartphone, ecc.) continua a elaborare lunghe sequenze di stringhe binarie. Non che negli anni ’80 si arrivasse così vicini al “cuore calcolante” della macchina, ma negli anni ce ne siamo allontanati sempre di più, al punto che oggi l’utente medio ha un rapporto (spesso continuo e talvolta compulsivo) con un device di cui non conosce neanche a grandi linee il funzionamento.

Per l’utente degli anni ’80, i dispositivi di oggi sono una versione più compatta, veloce e potente di ciò che già conoscevano. Per l’utente cresciuto nell’era delle interfacce, un computer degli anni ’80 è una scatola inutile. La finalità di questo ragionamento (ispirato al bell’articolo pubblicato dal gruppo indisciplinare Ippolita sul blog del festival Impunita), che non è certo abbandonarsi alla nostalgia per gli anni che furono, è volta a mettere in guardia il lettore (e quindi l’utente) sul fatto che il concetto di “nativi digitali” è solo una formula giornalistica, un abbaglio collettivo. Sono i prodotti che usiamo a essere sempre più “smart” e a renderci sempre più semplice il compito di usarli. «La “conoscenza” e l’“uso” hanno preso due direzioni diverse – scrive Ippolita –. Conoscere è un esercizio faticoso che implica ascolto, silenzio e concentrazione. Usare qualcosa invece può essere anche molto semplice». Ricordiamocelo, la prossima volta che guardiamo un bambino usare un tablet e pensiamo di avere davanti il rappresentante di una generazione di geni dell’informatica. Piuttosto, quella scena sancisce la vittoria dell’industria del consumo globale.

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