«Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che nel vostro senso io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri». La frase è di un pericoloso prete sovversivo, don Lorenzo Milani, ed è stata esposta da una scuola di Genova (la “Don Milani – Colombo”) il 3 ottobre, quando è partita una grande mobilitazione nel mondo dell’istruzione per l’approvazione della legge sullo ius soli. Il tortuoso percorso che sta seguendo il provvedimento – che prevede alcuni meccanismi per allargare le possibilità di ottenere la cittadinanza italiana a favore dei minori nati e cresciuti nel nostro Paese – mostra come anche le questioni più alte possano essere piegate a meri calcoli politici. Allo stesso modo, il fatto che se ne stia di nuovo parlando testimonia il fatto che la mobilitazione “dal basso”, quando è organizzata e sa coinvolgere, è ancora in grado di modificare l’agenda politica dei partiti, o almeno riesce a riportare al centro del dibattito temi “scomodi”.

Nonostante la legge sia proposta dal principale partito di maggioranza, il Pd, a luglio il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni aveva dovuto annunciare che la discussione in merito all’approvazione della legge al Senato (il provvedimento è già stato approvato dalla Camera alla fine del 2015) era rimandata all’autunno, a causa di «difficoltà emerse in alcuni settori della maggioranza». In quel momento furono i tentennamenti di uno dei principali alleati del Pd, Alternativa popolare, a far desistere Gentiloni. La retorica per cui «Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata» è stata diffusa proprio nei giorni in cui si poteva riprendere il dibattito (la fine di settembre). Con una perplessità così forte e dichiarata al suo interno, il governo non ha ritenuto opportuno porre la questione di fiducia sul provvedimento, che così sembrava destinato a impantanarsi definitivamente.

Il paradosso è quindi avere un esecutivo che chiede la fiducia per il 51 per cento delle leggi – il rapporto più alto mai raggiunto negli ultimi dieci anni – tra cui quella elettorale (che dovrebbe richiedere la ricerca di consenso tra i partiti di maggioranza e opposizione), ma non se la sente di utilizzare lo stesso strumento per forzare il Parlamento a una scelta così importante. A chiarire le cose, dando indirettamente un’indicazione molto precisa al governo, ci ha pensato poi il segretario del Pd, Matteo Renzi, che ha voluto minimizzare il problema in un’intervista uscita il 14 ottobre su Repubblica: «Per me lo ius culturae arriverà. È scritto. Non so se in questa legislatura o nella prossima, questo non so dirlo. Però so una cosa: farne l’unica battaglia di principio paradossalmente non fa l’interesse dei soggetti a cui è rivolta. È un problema tattico, direi».

Non è chiaro in che modo farne una battaglia di principio (perché l’unica?) possa costituire un danno per i diretti interessati. Al limite il “problema tattico” sussiste per un partito di centrosinistra che pensa di allargare la sua base elettorale rifornendosi tra gli elettori della Lega Nord. Ma qui ci fermiamo nell’analisi, perché non è un nostro problema dare opinioni sulle strategie elettorali dei partiti. Un ultimo appunto: l’ottimismo è sempre apprezzabile, ma chi ha detto che nella prossima legislatura il parere del segretario del Pd conti qualcosa nell’approvazione dello ius soli? C’è un piccolo intoppo che separa la fine di questa legislatura dall’inizio della prossima: le elezioni.

Se non altro possiamo rallegrarci del fatto che in qualche modo si stia ancora parlando di ius soli e ius culturae, e questo si deve a una mobilitazione promossa da Insegnanti per la cittadinanza, lanciata il 17 settembre e iniziata ufficialmente il 3 ottobre con varie iniziative, tra cui uno “sciopero della fame a staffetta” che sta tutt’ora proseguendo. A partire da quel giorno, grazie anche all’attenzione mediatica che l’iniziativa si è conquistata, la politica è stata in qualche modo forzata a riprendere il dibattito, se non altro per spiegare in maniera chiara quali sono i motivi per cui non sarebbe ancora il momento giusto per approvare la legge. Il chiarimento ovviamente non è arrivato, ma almeno si è tolta la polvere da un tema che in molti avrebbero preferito rimettere nell’armadio per ancora chissà quanti anni.

Come spiegava il senatore Luigi Manconi (del Pd, seppure si possa considerare un “battitore libero” della politica) durante un incontro a Bologna lo scorso 13 ottobre, l’occasione è unica. «Se non si approva la riforma dello ius soli in questa legislatura, se ne riparlerà tra vent’anni». Nonostante ciò che va dicendo il segretario del Pd (per ovvie ragioni di propaganda elettorale), gli equilibri della politica non sono favorevoli alle forze che oggi potrebbero spingere per approvare la legge. Le prossime elezioni potrebbero spostare radicalmente il baricentro del Parlamento, e dunque per l’intera legislatura di ius soli non si parlerebbe più. L’unico modo per dimostrare che non c’è alcuna tattica, è proprio farne una questione di principio. Ora, perché di tempo se n’è già perso abbastanza.

(Foto di Tina Floersch su Unsplash)