La candidatura di Hillary Clinton alla presidenza degli Stati Uniti (diventata ufficiale durante la convention del Partito Democratico, che si conclude oggi) mette in luce un aspetto delicato sull’innegabile conquista che costituirebbe la sua eventuale vittoria. Sarebbe infatti la prima donna a diventare presidente degli Usa, ma il fatto di considerare la sua candidatura “in-quanto-donna” ne sminuisce il valore o è un filtro inevitabile con cui leggere la realtà? Probabilmente la verità sta nel mezzo. Da un lato non si può infatti sottostimare l’impatto che la sua vittoria avrebbe nella percezione delle donne statunitensi di poter ambire, nella vita, a qualsiasi risultato. Dall’altro sarebbe certamente riduttivo fermarsi al genere della candidata, o comunque metterlo troppo in alto tra gli elementi che compongono il quadro. Clinton va giudicata (nel bene o nel male) soprattutto per il suo percorso politico fin qui, fatto di luci e ombre, che di sicuro la rende una politica di grande esperienza. Un terzo aspetto della questione è il fatto che, se anche Clinton dovesse vincere alle elezioni di novembre, il problema della discriminazione di genere negli Stati Uniti non potrebbe certo considerarsi risolto. Così come il problema razziale nei confronti degli afroamericani sta emergendo in tutta la sua violenza negli ultimi mesi, nonostante la figura di Barack Obama, allo stesso modo la battaglia per una piena parità di diritti non potrebbe considerarsi conclusa con una donna alla Casa Bianca.
La questione di genere, per quanto riguarda Hillary Clinton, va messa al posto giusto nella discussione, e questo non può comunque essere secondario. È importante soprattutto che Clinton (o chiunque ci fosse stata al suo posto) sia apprezzata (o criticata) in quanto persona e non, appunto, “in-quanto-donna”, perché questo sancirebbe già una discriminazione. Se una donna arriva a realizzare le proprie ambizioni cercando, in qualche modo, di somigliare a un uomo, oppure di compensare lo “svantaggio di partenza” rincorrendo il modo di essere e di porsi che la platea maschile si aspetta da lei, sta in qualche modo giocando contro la causa di tutte le donne, confermando il fatto che per eccellere bisogna accettare le regole della “società maschile”. Di questo (e di altro) parla Giulia Siviero in un articolo per il Post, in cui tra l’altro scrive: «Durante la campagna elettorale qualcuno ha invitato Clinton ad essere più femminile (sorridi, no?) o pensa che sia riuscita ad essere nominata perché non è una “vera donna” e ha caratteristiche più maschili che femminili: insomma ce l’avrebbe fatta perché sembra-un-uomo. Lo stesso argomento, in varie forme, viene usato sistematicamente ogni volta che una donna ce la fa, e non solo in politica. E viene usato da chi pensa che ci siano stereotipi e caratteristiche “naturali” che meglio si adattano alle donne, a cui vengono poi associate senza via d’uscita solo alcune capacità e competenze. Ma questa è solo un’altra prova dell’astio che esiste verso le donne, e in particolare verso quelle ambiziose. “Non ci è permesso di esistere per i nostri meriti, ma solo come estensione di maschi di potere” (Lena Dunham, a proposito di Clinton)».
È curioso che anche nel mondo femminista ci sia una tendenza a minimizzare la questione di genere in casi come questi: «In questo preciso contesto, ha scritto Jessica Valenti sul Guardian, è piuttosto insolito che nel momento in cui gli Stati Uniti hanno l’opportunità di eleggere la loro prima presidente donna, l’idea che il genere possa contare qualcosa venga giudicato superficiale (nel migliore dei casi) o patetico e infantile (nei peggiori). Votare una donna in quanto donna viene spesso considerato un argomento pre-politico ed è stato molto utilizzato dai detrattori di Clinton durante la campagna elettorale: “una cosa da donne” ha detto qualcuno, “il grado zero del sessismo” ha detto qualcun altro pensando di fare scuola di femminismo. Ma è molto infantile e tattico pensare che le donne votino le donne solo in quanto donne. Altrimenti avremmo visto schiere di femministe dietro a Sarah Palin. Ecco, no». Pensare questo sposterebbe il giudizio dalla candidata agli elettori (o meglio in questo caso le elettrici), un po’ come pensare che gli afroamericani abbiano votato Barack Obama in quanto afroamericano. Per quanto la politica americana sia molto propensa a guadagnarsi la fiducia della base elettorale cercando di infondere sentimenti di identificazione, quella sul genere ci sembra una considerazione superficiale e semplicistica che fa il gioco di chi, alle pari opportunità, non vuole che si arrivi.
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