Che la flessibilità dei rapporti di lavoro sia un trampolino per la ripresa dell’occupazione è un’equazione che da molti anni viene proposta dalla politica un po’ in tutta Europa (a prescindere dagli schieramenti). Sul fatto che ci sia una reale correlazione tra le due cose, però, nessuno ha mai fornito una prova. Anzi, le ricerche fatte fin qui dimostrano il contrario. Su un blog del Sole 24 Ore è stato pubblicato un articolo che cita numerosi studi realizzati nel corso degli anni, dai quali si evince chiaramente che una minore tutela del lavoratore, e una maggiore discrezionalità in fase di licenziamento per l’azienda, non sono garanzia di un aumento dell’occupazione. La scelta, portata avanti anche dall’esperienza di governo da poco terminata (Jobs Act), di ridurre le garanzie per il lavoratore assunto a tempo indeterminato, è dunque un atto figlio di un indirizzo politico che nulla ha a che vedere con la lotta alla disoccupazione.

Non si tratta qui di schierarsi a favore o contro qualcuno: affrontiamo un problema specifico con dati che restituiscono una realtà molto diversa da quella che ci viene raccontata dalla politica. Un quadro dato anche dal confronto tra come stanno andando le cose nel nostro Paese rispetto ad altri Stati europei. «Dall’entrata in vigore del Jobs Act – scrivono gli autori dell’articolo (trovate tutte le fonti al link pubblicato più in alto) –, la crescita dell’occupazione dipendente nel nostro paese è stata molto più modesta rispetto all’aumento medio degli occupati che si è registrato nell’eurozona; nello stesso arco di tempo, inoltre, non si rilevano significativi avvicinamenti dell’Italia alla media europea (dati Ameco Eurostat)».

Per alcuni si tratterà di una sorpresa. Per quanto ci riguarda, modestamente, avevamo avuto motivi di sospettare dell’efficacia del provvedimento già ai tempi della sua introduzione. E non si tratta di un problema relativo solo al Jobs Act, ma a quella serie di credenze e convinzioni (non provate) che hanno portato all’introduzione di alcune sue parti. «Dopo un ventennio di ricerche dedicate all’argomento, la più influente analisi economica ha escluso l’esistenza di relazioni statistiche significative tra precarizzazione del lavoro e occupazione. Economisti e istituzioni che per lungo tempo hanno salutato con favore le politiche di deregolamentazione del lavoro, hanno dovuto riconoscere che non vi sono evidenze sufficienti per sostenere che tali politiche favoriscano le assunzioni». Badate che non stiamo citando un articolo apparso su un pericoloso foglio di matrice vetero-comunista, bensì un pezzo firmato da economisti di diversa estrazione. E non c’è nemmeno da tirare in ballo misteriosi “poteri forti” che vorrebbero nascondere la verità, visto che tra le ricerche menzionate ci sono anche quelle realizzate e pubblicate dai maggiori organi sovranazionali di finanza e sviluppo: «Il World Development Report pubblicato nel 2013 dalla World Bank è giunto alla seguente conclusione: “Nuovi dati e metodologie più rigorose hanno scatenato un’ondata di studi empirici negli ultimi due decenni sugli effetti della regolamentazione del lavoro […] Sulla base di questa ondata di nuove ricerche, l’impatto globale della maggiore flessibilità del lavoro è inferiore all’intensità che il dibattito suggerirebbe. Per la maggior parte, le stime tendono ad essere insignificanti o modeste”. Ed ancora, il World Economic Outlook 2016 del Fmi evidenzia che “le riforme che facilitano il licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche”».

Il problema qui è che non si tratta di una riforma di tipo “omeopatico”, cioè che non cura, ma non produce nemmeno danni. Un impatto misurabile della flessibilità c’è infatti stato, e riguarda i redditi: «La precarizzazione può invece avere un effetto tangibile sul potere contrattuale dei lavoratori, e per questa via può deprimere i salari e ampliare le disuguaglianze tra i redditi». Se il lavoratore ha meno tutele, e può essere licenziato senza giusta causa a fronte di un indennizzo economico (peraltro con un tetto massimo imposto dalla legge), il suo potere contrattuale ne risulta ridotto, e dunque ci sarà un effetto negativo in termini di distribuzione del reddito per chi si trova ai gradini più bassi del mondo del lavoro. Secondo un articolo pubblicato su La Stampa, il Jobs Act avrebbe avuto anche un effetto sull’aumento dei licenziamenti senza giusta causa, aumentati del 28 per cento rispetto a un anno fa. In realtà non vengono fornite prove di correlazione tra il dato (comunque preoccupante) e la riforma del lavoro, bensì solo una serie di testimonianze di lavoratori o ex-lavoratori.

Attenzione dunque ad accettare passivamente la flessibilità (detto altrimenti: la precarietà) che progressivamente viene incrementata a ogni riforma del lavoro. Cerchiamo di non ragionare tanto sulle parole, bensì, visto che li abbiamo, sui numeri.