Nonostante le intenzioni proclamate dal governo, in Italia il turismo stenta a crescere. Crisi economiche e finanziarie stanno colpendo i mercati di gran parte del mondo, eppure siamo in un’epoca in cui il numero di persone che si spostano per motivi turistici sta aumentando vertiginosamente. Ma l’Italia non riesce ad approfittarne. Ne scriveva qualche mese fa Annamaria Testa su Internazionale, e ieri Gian Antonio Stella riprendeva l’argomento sul Corriere. Citando i dati di un rapporto realizzato da Confcommercio e Ciset (Centro internazionale di studi sull’economia turistica, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia) e delle tabelle Wttc (World Travel & Tourism Council), il giornalista dipinge un’Italia in forte difficoltà nell’intercettare le rotte turistiche dei tanti stranieri in viaggio.

I motivi sono di natura molto varia, e vanno dall’inadeguatezza delle infrastrutture di trasporto ai giudizi negativi dei visitatori nei confronti delle strutture direttamente legate all’accoglienza turistica. Spesso ci si illude che il fatto di avere il record di patrimoni Unesco sul territorio garantisca la riscossione di interesse e visite, ma la realtà insegna che non è così. «“La permanenza media è passata da 4,1 giorni del 2001 a 3,6 giorni del 2015”, dice il dossier citato. La domanda sempre “più orientata al mordi e fuggi” ha ridotto la spesa pro capite di ogni visitatore, in 15 anni, da 1.035 a 676 euro. Un crollo del 35 per cento. Tanto da far dire a Confturismo che senza questa sforbiciata avremmo avuto 195 milioni di presenze e 38 miliardi in più. Due miliardi e mezzo l’anno. Buttati senza che alcuno si chiedesse seriamente: c’entrerà qualcosa, ad esempio, il fatto che l’ultimo rapporto biennale “Country Brand Index 2014-15” ci abbia visti scivolare nella classifica qualità-prezzo dal 28esimo al 57esimo posto?».

A ottobre 2015 il ministro della Cultura Dario Franceschini aveva commentato con parole trionfali la nomina del nuovo consiglio d’amministrazione di Enit (Agenzia nazionale del turismo): «Finalmente si volta pagina, sarà un vero cambio di passo per il turismo italiano». Passati sei mesi, non si sa bene cosa abbia prodotto questa “svolta epocale”. Si tratta dell’«Ente che ha il compito di promuovere l’immagine unitaria dell’offerta turistica nazionale e di favorirne la commercializzazione». Eppure se uno cerca dal loro sito l’offerta turistica italiana viene rimandato ai siti delle singole regioni. Forse per “immagine unitaria” si intende la mappa dell’Italia su cui bisogna cliccare. Che dire poi del titolo della mappa presente in home page, che dall’italiano “Sedi, studi ed eventi” diventa nella versione inglese “Officies […]”, con un uso della grammatica britannica piuttosto creativo.

Quando si parla di turismo e di occasioni non sfruttate viene sempre in mente il Sud Italia, che col suo patrimonio artistico, culturale e paesaggistico dovrebbe fare la parte del leone. In questi giorni si parla del Sud soprattutto per la questione delle trivellazioni dello stabilimento Tempa Rossa, in Basilicata. C’è un altro “buco” però, forse meno evidente di quello fatto dalle trivelle, ma non meno importante: quello dei conti economici. «Vale più ancora per il nostro Mezzogiorno – scrive Stella –. Che ha 18 “patrimoni dell’umanità” e cioè più di tutta l’Inghilterra ma nel 2014 ha incassato 3,238 miliardi di dollari contro i 45,5 del Regno Unito. E nel 2015, dice il dossier Ciset e Confturismo, ha accolto in totale il 12,2 per cento dei turisti stranieri. Poco più della metà del solo Veneto (20,5 per cento) che con Lombardia, Toscana, Lazio e Trentino Alto Adige copre il 71,5 per cento del totale».

I problemi economici del Mezzogiorno sono certamente alla base delle difficoltà nel raggiungere un pieno sviluppo del settore turistico, e anche qui la politica ha delle responsabilità. Come scrive Guglielmo Forges Davanzati su MicroMega, «i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno somministrato dosi relativamente maggiori di austerità proprio alle aree più deboli del Paese. Le maggiori dosi di austerità imposte al Mezzogiorno (area popolata, in larga misura, da imprese di piccole dimensioni molto dipendenti dal settore bancario) ha dato luogo a una spirale perversa così ordinabile: la riduzione della spesa pubblica ha ridotto i mercati di sbocco, riducendo conseguentemente i profitti e aumentando il grado di insolvenza delle imprese (o generando fallimenti), con conseguente restrizione del credito (o aumento dei tassi di interesse), riduzione degli investimenti, dell’occupazione e del tasso di crescita. Da parte sua, il Governo sceglie la strada più semplice di dipingere il Mezzogiorno come un’area “vitale”, nel documento introduttivo del c.d. Masterplan». Le solite formule con cui questo governo ci ha abituato a una comunicazione accattivante, che spesso nasconde una scatola vuota.