Da tempo la ricerca si interroga sulla nascita del patriarcato. Per molto tempo si è creduto che la forma di organizzazione sociale per cui sono gli individui maschi a dettare le regole osservata in diverse società umane fosse il riflesso di ciò che si riscontrava in alcune specie animali. Scoperte più recenti hanno poi sconfessato questa teoria, sottolineando peraltro come certi comportamenti particolarmente violenti osservati nelle scimmie fossero il risultato di una condizione di cattività che non aveva nulla di “naturale”.

Altre teorie hanno ricondotto il fenomeno alla nascita dell’agricoltura, o della famiglia mononucleare, o della proprietà privata. Forse invece è alla gestione del potere che bisogna guardare per capire come questa ha influito sugli equilibri sociali e domestici, con effetti che permangono tuttora.

Come spiega un articolo della giornalista scientifica Angela Saini sulla BBC, i modi di organizzarsi degli esseri umani non hanno molti paralleli nel regno animale. Come ha osservato l’antropologa Melissa Emery Thompson, nei primati le relazioni familiari intergenerazionali sono costantemente organizzate attraverso le madri, non i padri.

Anche tra gli esseri umani il patriarcato non è universale. Gli antropologi hanno identificato almeno 160 società matrilineari esistenti nelle Americhe, in Africa e in Asia, in cui le persone appartengono alle famiglie delle loro madri per generazioni, con un’eredità che passa dalla madre alla figlia. In alcune di queste comunità si venerano le dee e si rimane nella casa materna per tutta la vita. Spesso nelle comunità matrilineari il potere è condiviso tra donne e uomini.

Più ci immergiamo nella preistoria, racconta l’articolo, più troviamo forme di organizzazione sociale diverse. Nel sito di Çatalhöyük, risalente a 9 mila anni fa e situato nell’Anatolia meridionale, oggi territorio della Turchia, quasi tutti i dati archeologici indicano l’esistenza di un insediamento in cui il genere non influiva in modo significativo sulla vita delle persone.

L’analisi dei resti umani ha permesso di scoprire che uomini e donne avevano la stessa dieta, trascorrevano all’incirca la stessa quantità di tempo in casa e all’aperto e svolgevano lavori simili. Anche la differenza di altezza era minima.

Tale organizzazione sociale a Çatalhöyük non è continuata per sempre e come sappiamo, migliaia di anni dopo, in città come l’antica Atene intere culture si sono sviluppate attorno a miti misogini secondo i quali le donne erano deboli, di loro non ci si poteva fidare ed era meglio confinarle in casa.

Antropologi e filosofi si sono chiesti se l’agricoltura potesse essere il punto di svolta nell’equilibrio di potere tra uomini e donne, prosegue Saini. Ma le donne hanno sempre svolto lavori agricoli. Nella letteratura greca e romana antica, ad esempio, ci sono raffigurazioni di donne che mietono il grano e storie di giovani donne che lavorano nella pastorizia. I dati delle Nazioni Unite mostrano che, ancora oggi, le donne costituiscono quasi la metà della forza lavoro agricola mondiale e sono quasi la metà dei gestori di bestiame nelle fattorie di piccole dimensioni nei Paesi a basso reddito.

I primi segni evidenti di un trattamento nettamente diverso delle donne rispetto agli uomini compaiono molto più tardi, nei primi stati dell’antica Mesopotamia, circa 5 mila anni fa. Le élite di queste prime società avevano bisogno di individui disponibili a produrre un surplus di risorse per loro, e di essere disponibili a difendere lo Stato, anche rinunciando alla propria vita, se necessario, in tempo di guerra.

La cosa più importante per lo Stato era che ognuno svolgesse il proprio ruolo in base a come era stato classificato: maschio o femmina. I talenti, i bisogni o i desideri individuali non avevano importanza. Un giovane uomo che non voleva andare in guerra poteva essere deriso come un fallito; una giovane donna che non voleva avere figli o non mostrava istinto materno poteva essere condannata come “innaturale”.

Lo sfruttamento delle donne all’interno dei matrimoni patriarcali continua tuttora. Le stime più recenti, relative al 2021, indicano che 22 milioni di persone a livello globale vivono in matrimoni forzati.

Il danno psicologico a lungo termine dello Stato patriarcale è stato far apparire il suo sistema di generi come normale, persino naturale, nello stesso modo in cui l’oppressione di classe e razziale è stata storicamente inquadrata come naturale da chi deteneva il potere. Queste norme sociali sono diventate gli stereotipi di genere di oggi, compresa l’idea che le donne siano universalmente premurose e accudenti e che gli uomini siano tutti naturalmente violenti e predisposti alla guerra. Confinando le persone in ruoli di genere ristretti, il patriarcato ha svantaggiato non solo le donne, ma anche gli uomini. Il suo intento è sempre stato quello di servire solo coloro che si trovano ai vertici della società: le élite.

Per quanto la lotta contro il patriarcato possa sembrare a volte sconfortante, conclude Saini, non c’è nulla nella nostra natura che ci impedisca di vivere in modo diverso: «Una società fatta da esseri umani può sempre essere rifatta dagli stessi esseri umani».

(Foto di Matt Seymour su Unsplash)

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