«Non mi sembra uno scossone e nemmeno uno scossino. In un Paese che non riconosce il merito, già immagino da quali filiere verranno queste signorine». Parole di Emma Bonino, a seguito dell’approvazione, martedì 28 giugno, della legge che impone alle aziende quotate in Borsa, o a partecipazione pubblica, un consiglio di amministrazione composto da donne per un quinto a partire dal 2012 (per un terzo dal 2015). «Le trovo avvilenti», aggiunge la Pdl Alessandra Mussolini. Più articolata la “giustificazione” di Gino Bucchino (Pd) alla sua astensione durante la votazione, e chi scrive condivide nella sostanza le parole del deputato: «Pensare di superare questa discriminazione a forza di legge è una ipocrisia […], un modo di mettersi a posto la coscienza, tanto sappiamo tutti -e sì che lo sappiamo- che una legge del genere difficilmente andrà a buon fine. Mille scuse e impedimenti saranno tirati fuori per impedirne l’effettiva esecuzione. È una legge, inoltre, che mortifica ancor di più le donne, dal momento che esse entreranno in un consiglio di amministrazione in forza di una quota “rosa”, perché donne, e non per meriti. Ma perché? Di quante quote abbiamo ancora bisogno in questo Paese? Una quota per gli “stranieri”? Una quota per le persone di colore? […] Abbiamo bisogno di fare entrare nella nostra testa che non esistono “uomini e donne” nell’esercizio dei diritti, ma che esistono soltanto “persone”. E per fare questo dobbiamo educare, non legiferare».
Ovviamente, vale la pena sottolinearlo, vediamo con favore un aumento del numero di donne impegnate in ruoli di responsabilità, in campo economico, politico, sociale, scientifico, ecc. Ma, come dice Luca Pagni nel suo blog, «sfortunato quel paese che ha bisogno di introdurre le quote rosa». Già, perché se in Italia la norma (meglio, normalità) fosse la meritocrazia, non ci sarebbe alcun bisogno di creare questi ghetti concettuali, per cui essa va imposta per legge, dando per scontato che il sistema, di per sé, non sia in grado di portare i correttivi necessari a invertire questa tendenza. E se bipartisan è il voto, bipartisan è stato l’impegno disatteso nell’allargare il numero di donne all’interno dei partiti. Se Camera e Senato hanno una così larga sensibilità comune nell’approvare leggi del genere, perché manca quella per dare il buon esempio e dimostrare che le quote rosa si possono applicare anche senza imposizioni normative? E non va meglio a livello locale, come a Varese, dove «In campagna elettorale, c’erano due donne candidate sindaco, e diverse quote femminili, in tutte le liste, ma dalle urne è uscito un consiglio comunale tutto al maschile». Scenari del genere non sono di buon auspicio per il raggiungimento della parità sostanziale di diritti tra i sessi, perché indicano che siamo ostaggio di un pregiudizio culturale che non ci permette di vedere meriti nella donna equiparabili a quelli maschili. E, da ultimo, ci chiediamo: quale reale soddisfazione per la donna ammessa ai tavoli su cui si giocano le partite decisive, se questo avviene non per merito, ma perché lo dice il regolamento?