Ci prendiamo ancora un giorno (l’ultimo) per chiudere i conti col 2016, un anno che nella percezione collettiva (parola che abbiamo usato molto nell’articolo di ieri) sarà probabilmente archiviato come difficile, grigio, carico di eventi nefasti o che comunque gettano un’ombra di incertezza su molti aspetti degli equilibri geopolitici (su tutti il voto sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump). Evitiamo di fare l’elenco delle personalità importanti e popolari che ci hanno lasciato l’anno scorso, dal mondo della musica a quello dell’accademia.
Ma non c’è motivo, in realtà, per essere certi che il 2016 sia stato davvero un anno così pessimo (peraltro i due eventi citati prima, Brexit e Trump, a molti hanno dato sentimenti di gioia e spinta verso il cambiamento, il che va tenuto presente e rispettato). Il mondo è un calderone talmente vasto e complesso che probabilmente, se non fossimo portati per natura (e con l’aiuto di artifici mediatici esterni) a essere colpiti maggiormente e più a lungo dai fatti negativi, avremmo altrettanti motivi per dire che lo scorso anno sia stato tutto sommato buono, o se non altro in linea con quelli che l’hanno preceduto.
Le scoperte scientifiche rientrano tra quei fatti che hanno un impatto minore (mediamente) nella nostra percezione. In parte perché spesso tiggì e giornali ci marciano su: un piccolo indizio su una possibile nuova cura è subito un “risultato storico”, ancor prima che se ne possa verificare l’attendibilità con ulteriori test. Quindi poi se ne perdono le tracce, perché per un piccolo indizio sono necessarie mille altre verifiche, prima di stabilire una relazione di causa-effetto tra due eventi.
Ci passano sotto il naso talmente tanti “risultati storici” che ormai la definizione ha perso di forza. Di questo passo anche trovare tutti i semafori verdi mentre si va in ufficio diventerà un “risultato storico”, come anche riuscire ad appaiare tutti i calzini dopo una lavatrice. In questo modo non ci si rende conto che di risultati che, in futuro, saranno davvero definiti “storici” (perché la cosa non si decide mentre accadono, è appunto la storia a parlare), ne sono successi eccome. Non uno al giorno, come sembrerebbe a leggere i giornali, ma almeno tre nel 2016 si sono verificati. O almeno tre sono quelli che ha ritenuto di selezionare Matteo De Giuli, fisico e giornalista scientifico, che ha parlato, in un articolo per il Tascabile del 20 dicembre scorso, di onde gravitazionali, Dna e intelligenza artificiale.
Il fatto probabilmente più rilevante è il primo, ossia l’osservazione di onde gravitazionali nello spazio profondo, in un processo di scontro di due buchi neri avvenuto 1,4 miliardi di anni fa. Roba da niente, potrebbe sembrare, e invece queste piccole particelle hanno il merito di confermare, a un secolo esatto dalla sua stesura, le intuizioni contenute in un articolo di Albert Einstein pubblicato a integrazione della sua teoria della relatività generale. Si tratta di una scoperta importantissima per la scienza, che dà concretezza empirica a un’intuizione logica avvenuta agli inizi del secolo scorso, ma mai verificata per mancanza di strumenti adeguati.
Certo la nostra vita di tutti i giorni non cambierà dall’oggi al domani grazie a questa scoperta, ma è una conferma importantissima di un meccanismo costitutivo dell’universo e di una “forza” con la quale abbiamo a che fare in maniera molto diretta: quella di gravità. Per approfondire, consigliamo il bel libretto (dal linguaggio divulgativo) di Carlo Rovelli Sette brevi lezioni di fisica, pubblicato da Adelphi nel 2015 e diventato un caso editoriale che si è trascinato una scia di vendite e traduzioni in svariate lingue anche nel 2016. Un altro aspetto importantissimo di questa scoperta è che il contributo italiano all’impresa è stato determinante. In questa foto potete ammirare l’espressione del primo uomo sulla Terra ad aver visto sullo schermo del proprio computer le onde gravitazionali. Quel curioso ghigno appartiene a Marco Drago, fisico italiano che lavora nel progetto Ligo, un osservatorio che si trova in Germania e che per questa rilevazione ha collaborato con un altro osservatorio, che si trova in provincia di Pisa.
Le onde gravitazionali masticano dunque anche spaghetti, e forse questo Einstein non l’aveva previsto. L’occasione è buona per ribadire l’importanza di investire fondi pubblici sulla ricerca scientifica, visto che l’Italia è in grado di far uscire dalle proprie università studiosi di alto profilo. Più che dolersi del fatto che tanti ottimi professionisti si trasferiscano all’estero, bisogna chiedersi come mai poi essi decidono di non tornare più; o anche perché così pochi stranieri vengano in Italia per portare avanti le proprie ricerche. Dicevamo che le scoperte scientifiche importanti del 2016 sono state (almeno) tre, ma alla fine abbiamo parlato solo di una. Se un po’ di curiosità siamo riusciti a farvela venire, vi invitiamo a continuare la lettura su ilTascabile.
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