L’iniziativa imprenditoriale in Italia cresce soprattutto grazie alle donne. Se la spesa pubblica fosse modulata in modo da farla crescere ancora di più, i benefici ricadrebbero su tutta l’economia. I dati arrivano dal terzo Rapporto ImpresaInGenere, realizzato da Unioncamere: «Tra il 2010 e il 2015 – si legge nella pagina dedicata del sito di Unioncamere –, le imprese femminili in più sono 35mila. Il loro aumento rappresenta il 65 per cento dell’incremento complessivo dell’intero tessuto imprenditoriale italiano (+53mila imprese) nello stesso periodo. Più dinamiche quindi (+3,1 per cento il tasso di crescita nel periodo a fronte del +0,5 per cento degli imprenditori uomini), ma anche sempre più digitali e innovative, più giovani, più multiculturali». Un «treno in corsa, che oggi conta 1 milione e 312mila imprese femminili (il 21,7 per cento del totale) che danno lavoro a quasi 3 milioni di persone».

Tecnologia, multiculturalità e giovani sono i tre elementi che caratterizzano questa espansione: «Le imprese femminili legate al mondo digitale sono aumentate del 9,5 per cento contro il +3 per cento del totale. In valori assoluti, il settore dell’Information and communication technology (Ict) a trazione femminile è aumentato di circa 1.800 unità, passando dalle 18.700 del 2010 alle 20.500 del 2015. Anche nel mondo delle startup innovative i progressi sono evidenti: se nel 2010 le startup innovative femminili erano solo il 9,1 per cento del totale, nel 2014 sono diventate il 15,4 per cento, pari a circa 600 imprese. Tra le attività maggiormente diffuse, la produzione di software e consulenza informatica (pari al 24,3 per cento del totale startup femminili), ricerca e sviluppo (17,4 per cento) e fornitura di servizi di Ict (13,7 per cento)». Per quanto riguarda gli altri due elementi, il Rapporto si esprime così: «Tra le caratteristiche del sistema produttivo al femminile anche la più diffusa presenza di giovani e di donne provenienti da altri Paesi. Quasi 14 imprese femminili su 100 sono guidate infatti da under 35 (circa 178mila in valori assoluti), a fronte delle circa 10 su 100 tra le imprese maschili. Nel 2014, poi, le imprese straniere femminili sono più di 121mila (9,3 per cento del totale delle imprese capitanate da donne), mentre tra quelle maschili le imprese straniere sono l’8,5 per cento del totale».

Purtroppo, a questa fase espansiva dell’imprenditorialità femminile non corrisponde un’altrettanto vitale livello di occupazione (anzi, proprio la disoccupazione costituisce talvolta la spinta ad avviare una propria attività, assumendosene i rischi), in linea con la condizione critica in cui versa il Paese: «L’occupazione giovanile femminile (15-34 anni), però, ha subito una significativa flessione (-15,4 per cento; -392mila in valori assoluti) che, per quanto più contenuta di quella maschile (-18,8 per cento), si è dimostrata ben più elevata della media europea (-4,4 per cento)». Questi dati sono ancora più interessanti se confrontati con i pareri raccolti da Annamaria Testa in un suo articolo per Internazionale. Testa ha intervistato Alessandra Del Boca, economista e docente di politica economica, e Antonietta Mundo, consulente statistico. Secondo entrambe le professioniste, lo sviluppo dell’occupazione femminile è una leva in grado di spingere al rialzo tutta l’economia del Paese, dunque la politica dovrebbe supportarla in maniera più decisa, in modo da innescare meccanismi virtuosi di cui beneficeranno tutti, direttamente o indirettamente. «Nessun governo si è ancora reso conto di un piccolo dettaglio – scrive Testa –, che ha un impatto enorme in termini di crescita: l’occupazione femminile è un moltiplicatore dello sviluppo. McKinsey calcola che la parità lavorativa uomo-donna nel mondo farebbe aumentare il pil globale del 26 per cento. Dal 2011, la Banca d’Italia afferma che se si raggiungessero gli obiettivi di Lisbona (occupazione femminile al 60 per cento) il pil aumenterebbe di 7 punti».

Molte donne, se avessero la possibilità di lavorare, potrebbero abbandonare alcune attività familiari alle quali sono maggiormente costrette rispetto agli uomini (su tutte l’assistenza a parenti anziani e quella ai figli), generando ulteriore lavoro. «Per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si creano infatti 15 nuovi posti di lavoro, che offrono i servizi non più forniti alla famiglia dalle lavoratrici». La mancanza di sostegno prolungato alle famiglie con figli da parte dello Stato spinge inoltre molte donne a scegliere di lavorare, piuttosto che diventare madri. In questo modo si accentua un altro fattore critico, ossia la bassa natalità, che da un lato sta facendo invecchiare la popolazione, dall’altro sta creando un vuoto generazionale che aggrava la differenza quantitativa tra chi avrà diritto a una pensione (sempre di più) e chi dovrebbe sostenerla col proprio lavoro (sempre di meno). E per fortuna, checché ne dica qualcuno, che c’è l’immigrazione a risollevare i conti.

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