Per la seconda volta, ci permettiamo di esprimere qualche considerazione sulle esternazioni del ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Giuliano Poletti. Avrete già capito a quale frase ci riferiamo, ma la riportiamo per completezza: «Il rapporto di lavoro è prima di tutto un rapporto di fiducia. È per questo che lo si trova di più giocando a calcetto che mandando in giro dei curriculum». Queste parole sono state pronunciate nel corso di un incontro in una scuola di Bologna, lunedì 27 marzo. Ancora una volta, non ce la prendiamo tanto con la sostanza del messaggio, comunque opinabile, ma con le modalità comunicative del ministro, che evidentemente non ha imparato la lezione, dopo le infelici uscite sui giovani che lasciano in Italia e che è bene non avere tra i piedi, e sul fatto che sia meglio una laurea con voto 97 a 21 anni piuttosto che un 110 e lode a 28.
Ormai si va delineando uno “stile Poletti” per questo tipo di dichiarazioni, che presentano alcune caratteristiche costanti. Innanzitutto il temperamento incauto: si tratta di uscite che potrebbero passare inosservate in un contesto intimo, privato, dove sai che nessuno dei presenti potrebbe offendersi e tutti sono consapevoli che, dietro alla battuta caustica, si cela un ragionamento sensato. Le stesse cose, dette in un’occasione pubblica, non possono che generare fastidi a qualche migliaio di persone che si trovano a fare da fulcro per l’elevarsi del sarcasmo polettiano. Quelle parole saranno estrapolate dal contesto dai media, messe tra virgolette, sintetizzate, rimasticate e infine proposte al pubblico come la summa del pensiero di Poletti sul tema. Hai voglia poi insistere che “le mie parole sono state travisate”, ormai il meccanismo si è messo in moto. Poletti ci ha anche provato, in effetti, a salvare in corner (visto che si parla di calcetto): «Voglio chiarire che non ho mai sminuito il valore del curriculum e della sua utilità. Ho sottolineato l’importanza di un rapporto di fiducia che può nascere e svilupparsi anche al di fuori del contesto scolastico. E quindi dell’utilità delle esperienze che si fanno anche fuori dalla scuola». Ecco, detta così suona meglio (anche se la prima frase non è proprio vera), e non abbiamo dubbi sul fatto che fosse questo il senso della battuta, ma ormai è difficile tornare indietro.
Tornando alle caratteristiche tipiche delle uscite di Poletti, ce n’è una seconda: il fatto che non siano né del tutto vere, né del tutto false. Chi può dire che non sia importante laurearsi in giovane età? Ma visto che si parla tanto di meritocrazia (tra cui rientrano i meriti sportivi, a quanto pare), non sono altrettanto importanti le competenze? Se uno dovesse farsi curare da un medico, ne sceglierebbe uno che si è laureato a 21 anni con 97 o a 28 con 110 e lode? È vero che prima si finisce, prima si può accumulare esperienza (e quindi competenza) sul campo, ma sminuire il percorso di studi non è comunque un bel messaggio per gli studenti. Allo stesso modo, la questione del calcetto contiene una parte di verità, ossia la consapevolezza che il mondo del lavoro è un mondo di relazioni, dunque anche il “saper essere” ha una sua importanza, oltre al “sapere” e al “saper fare”. Ma è l’equilibrio di questi tre saperi a costituire la base per cogliere opportunità di lavoro.
La battuta del calcetto chiaramente sminuisce il ruolo del curriculum, a favore della capacità di socializzazione, una visione che alla lunga non può che essere deleteria per i tanti italiani in cerca di lavoro. Molti di questi hanno infatti un ottimo curriculum, ma non conoscono “la persona giusta”. Se Poletti avesse detto che è importante immergersi nel settore in cui si vuole lavorare, per conoscere persone e farsi conoscere, che non basta mettersi al computer e inviare curriculum a casaccio, avremmo condiviso il messaggio. Ma il calcetto è l’antitesi della meritocrazia.
Concludiamo citando uno stralcio dell’intervento Luigi Zingales pronunciato nel 2011 alla Leopolda di Firenze. Lasciate perdere il contesto politico dell’incontro, ci interessano le parole dell’economista, che cita uno studio della Luiss secondo cui «l’80 per cento dei manager italiani dichiara che la determinante più importante del successo finanziario è la conoscenza di persone importanti. La competenza e l’esperienza arrivano solo quinte, dopo lealtà e obbedienza. La mancanza di meritocrazia elimina gli incentivi ad accumulare capitale umano. Perché uno deve studiare, accumulare competenza, quando contano soltanto le relazioni? […] E non c’è persona più fedele del buono a nulla, che non ha alternative. Ecco perché in Italia si trovano le migliori segretarie e i peggiori manager: molte persone, soprattutto donne, che avrebbero le capacità per essere manager, sono confinate al ruolo di segretaria. Mentre i posti dirigenziali sono destinati a chi è bene introdotto, anche se spesso incapace. […] Nella competizione globale vince il migliore, non il compare, il raccomandato politico, o il figlio di papà».
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Condivido le considerazioni espresse nell’articolo.
Poletti ha espresso male (e un Ministro dovrebbe stare più attento) una verità nota a tutti