Finora abbiamo cercato di metterla in positivo, ma questa storia della rappresentanza (che è cominciata qui e proseguita qui) ha in realtà molti più esempi negativi da offrire. Spesso sono proprio le basi a mancare. Dietro una retorica fatta di grandi principi e concetti difesi a ogni occasione (a parole), è frequente che si nascondano prassi in aperta contraddizione. Sembra che a un certo punto, ad alcuni leader, sfugga il senso della misura, il perimetro mentale che separa la correttezza istituzionale dall’eccesso di discrezionalità. «Di tutte le manifestazioni del potere quella che impressiona di più gli uomini è la moderazione (Tucidide)». Forse sono processi che in parte avvengono inconsapevolmente. Fatto sta che a un certo punto alcuni si trovano a fare scelte e proposte che stonano fragorosamente con le idee di collegialità e pluralismo che dovrebbero animare ogni sano rappresentante di un’istituzione, fatta di tante teste che ragionano.
Spingere, come dicevamo ieri, per imporre una linea di continuità a ogni costo, vuol dire arroccarsi sulla propria figura al punto da arrivare a credere che ci sia solo un pensiero buono, il proprio. «Egli è un uomo intelligente – scriveva Fëdor Dostoevskij –, ma per agire intelligentemente l’intelligenza sola non basta». Un’osservazione per nulla banale. L’intelligenza può essere un’arma a doppio taglio, se chi ce l’ha crede di essere l’unico ad averla. Quando un capo cerca di imporre la propria linea come l’unica possibile, sta calpestando le idee di tutti gli altri, arrivando a togliere loro qualunque legittimità nel partecipare a un processo che, per quanto si avvalga di figure di coordinamento, è innanzitutto collettivo. A quel punto, quando scattano certi processi mentali, non si torna più indietro. Ci si sente liberi di criticare e screditare chiunque, convinti comunque di essere nel giusto.
Magari si lascia credere ad altri di prendere in considerazione le loro idee, li si mette in attesa del momento in cui esse saranno utili e andranno a comporre un disegno più grande. Ma questo momento non arriva mai, perché non c’è nessuna reale intenzione di confronto e di partecipazione. E magari ci si lasciano sfuggire considerazioni non proprio lusinghiere su quelle persone, gli eterni “panchinari” che vorrebbero essere parte di un disegno più grande ma, secondo il leader di turno, non sono le persone giuste. Non perché le loro idee non siano valide, ma perché, si ribadisce (in un ragionamento ricorsivo e avvitato su se stesso, che quindi non spiega niente), non-sono-le-persone-giuste, punto. Eppure secondo Seneca questo modo di agire, alla lunga, risulta controproducente: «Non rivolgerti con tono sferzante ad alcuno. Coloro ai quali ti rivolgerai in questo modo potrebbero rispondere nello stesso modo: le ingiurie sono dolorose. Colpo su colpo, esse ricadranno su di te». Non c’era forse bisogno di scomodare il filosofo per sottolineare cose tanto ovvie. Eppure la storia continua a consegnarci personaggi che, nel loro travisare il concetto di rappresentatività, cadono in errori del genere, dimostrando l’assioma sull’intelligenza di cui sopra. E come si potrebbe dirla in maniera più tagliente del grandissimo Ennio Flaiano: colui che agisce in questo modo non può che essere «Afflitto da un complesso di parità. Non si sente inferiore a nessuno». Pari, o meglio superiore a tutti e a tutto, anche alla storia.
Quando si agisce nei modi descritti fin qui, si dimostra infatti di non rispettare non solo le persone, ma anche la storia stessa dell’istituzione che si dovrebbe rappresentare. Se, come scriveva François de La Rochefoucauld, «Troviamo dotate di buon senso soltanto le persone che la pensano come noi», allora cade completamente la capacità di farsi sintesi delle idee e dei bisogni della base, per quanto eterogenei. Imporre la propria linea, azzerando ogni possibilità di cambiamento, significa percepirsi eterni: migliori di ciò che è stato prima, indispensabili per ciò che verrà dopo. E per gli altri, è ovvio, non c’è storia.
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