Il dibattito sull’olio di palma si è assestato fin dall’inizio sui problemi e i rischi per la salute che questo sostituto del burro può implicare per la salute di chi lo consuma (in particolare quella dei bambini, visto che questo tipo di ingredienti sono molto utilizzati in brioche e snack vari). Ci siamo però dimenticati di considerare che i problemi maggiori riguardano chi invece lavora nel processo produttivo dell’olio di palma. In tema di salute, approcci meno allarmistici e più scientifici sulla questione hanno mostrato che i rischi non sono così evidenti, visto che non esiste qualcosa come la “molecola di olio di palma” distinguibile dalla “molecola di olio di oliva”. Ogni olio (o burro) contiene in parti diverse gli stessi acidi grassi (che si dividono in saturi, monoinsaturi e polinsaturi), legati nei trigliceridi. La loro distribuzione nelle tre tipologie determina le proprietà (e gli usi che si faranno) dell’olio in questione. Il burro, per esempio, contiene molti grassi saturi (motivo per cui a temperatura ambiente resta solido) ed è adatto per certe ricette. L’olio d’oliva ha più grassi monoinsaturi e polinsaturi (e infatti si presenta liquido), quindi sarà più indicato per altri usi (rimandiamo agli articoli del chimico Dario Bressanini per un maggiore approfondimento). L’olio di palma è, tra i sostituti del burro, quello più ricco di grassi saturi (assieme all’olio di cocco), e ha il vantaggio di costare molto poco. Già, ma qual è il costo sociale di questo prodotto così efficiente?
Spesso, chi si oppone all’utilizzo di olio di palma (così come agli ogm), pone giustamente il problema su questioni controverse, ma con le argomentazioni sbagliate. Purtroppo per i loro detrattori, che olio di palma e ogm siano un male in sé per la salute di chi li mangia non è dimostrato. Resta dunque una credenza basata su un sistema di valori che ognuno sedimenta nel tempo, e verso il quale è poco disponibile a cambiare idea. Gli studi scientifici però non confermano queste convinzioni. Ciò su cui ci si dovrebbe concentrare di più è invece la salute di chi questi alimenti li produce. Parlando in particolare di olio di palma, Amnesty ha pubblicato un dossier dal titolo inequivocabile: “Il grande scandalo dell’olio di palma: violazioni dei diritti umani dietro i marchi più noti”. All’interno del documento ci sono accuse pesantissime, relative agli abusi commessi dal “gigante” dell’agro-business Wilmar, fornitore di nove grandi aziende mondiali alle quali si possono ricondurre moltissimi prodotti di cui si fa largo consumo nel mondo.
«Le violazioni riscontrate nelle piantagioni della Wilmar non sono casi isolati ma il risultato prevedibile e sistematico del modo in cui questo produttore opera», ha dichiarato Meghna Abraham di Amnesty International, che ha condotto l’indagine. «C’è qualcosa che non va se nove marchi, che nel 2015 hanno complessivamente fatturato utili per 325 miliardi di dollari, non sono in grado di fare qualcosa contro l’atroce sfruttamento dei lavoratori dell’olio di palma che guadagnano una miseria». L’indagine è stata condotta da Amnesty intervistando 120 lavoratori delle piantagioni di palma da cocco in Indonesia, e le risposte hanno fatto luce su un sistema basato su: «– donne costrette a lavorare per molte ore dietro la minaccia che altrimenti la loro paga verrà ridotta, con un compenso inferiore alla paga minima (in alcuni casi, solo 2,50 dollari al giorno) e prive di assicurazione sanitaria e di trattamento pensionistico; – bambini anche di soli otto anni impiegati in attività pericolose, fisicamente logoranti e talvolta costretti ad abbandonare la scuola per aiutare i genitori nelle piantagioni; – lavoratori gravemente intossicati da paraquat, un agente chimico altamente tossico ancora usato nelle piantagioni nonostante sia stato messo al bando nell’Unione europea e anche dalla stessa Wilmar; – lavoratori privi di strumenti protettivi della loro salute […]; – lavoratori costretti a lavorare a lungo, a costo di grave sofferenza fisica, per raggiungere obiettivi di produzione ridicolmente elevati, a volte usando attrezzature a mano per tagliare frutti da alberi alti 20 metri; – lavoratori multati per non aver raccolto in tempo i frutti dal terreno o per aver raccolti frutti acerbi». A partire da questa indagine, probabilmente, si riuscirà a fare chiarezza sui metodi di gestione del lavoro della Wilmar, e forse si otterrà qualche risultato.
La cosa paradossale è che molti degli alimenti che contengono olio di palma prodotto in queste piantagioni riportano la dicitura “con olio di palma sostenibile”. E la cosa non stupisce visto che alcune delle aziende accusate dal rapporto di Amnesty siedono al Tavolo sull’olio di palma sostenibile, istituito nel 2004. Nella discussione, insomma, si è persa di vista una questione centrale del discorso, ossia la struttura della filiera, concentrandosi invece sul risultato finale e su una domanda mal posta: l’olio di palma fa male? La risposta è: dipende da che parte stai.
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