Un articolo dal Club de La lettura del Corriere.it in merito alla possibilità di valutare in senso commerciale il patrimonio artistico italiano a garanzia della solidità del Paese. Un’ipotesi, quella di vendere pezzi del patrimonio, temuta da alcuni e auspicata da altri.

Totòtruffa ‘62 meriterebbe una candidatura honoris causa ai prossimi Oscar: la vendita della fontana di Trevi è senza dubbio l’episodio più “cliccato” nell’economia della crisi che ha travolto governi e debiti sovrani. Totò-Detroit in default sotto il peso di debiti per 18 miliardi di dollari tenta di cedere i capolavori della collezione del Dia, il Detroit Institute of Art. Totò-Lisbona, sotto la pressione di un piano di salvataggio da quasi 80 miliardi di euro, vuole «privatizzare» la raccolta di 85 Miró. E a Roma, qualcuno in Corte dei Conti deve aver pensato al Principe della risata quando poche settimane fa è stato contestato (con ipotesi di richiesta danni) all’agenzia di rating Standard & Poor’s il declassamento nel 2011 dell’Italia a un passo dal livello «spazzatura» senza considerare l’immenso patrimonio artistico e culturale.

Solo che se Totò ha «venduto» almeno incassando la caparra, a Detroit e Lisbona i piani non sembrano destinati ad andare in porto. In entrambi i casi si sono sollevate proteste e preoccupazioni, che non sono rimaste inascoltate. Nella città americana i creditori hanno fatto fare una perizia sulla collezione che comprende capolavori di Caravaggio, Tiziano, Rembrandt, Rubens, Van Gogh, Degas, Matisse e Cézanne. Si è parlato di 2,5 miliardi di dollari ma alla fine sono intervenute fondazioni e cordate filantropiche per sventare la perdita per la città. A Lisbona l’asta sulle 85 opere di Miró, che provenivano dalla collezione del fallito Bpn, banca salvata dallo Stato nel 2008 che ha così nazionalizzato anche i quadri, è stata cancellata dalla stessa casa d’aste Christie’s. Di fronte alle proteste e per il timore di contenziosi.

Per quanto riguarda infine l’istruttoria aperta dalla Corte dei Conti sull’agenzia di rating Standard & Poor’s con ipotesi di richiesta di danni quantificata in 351 miliardi (117 per le manovre obbligate dal declassamento e 234 per il danno di immagine al Paese) nei giorni successivi è sembrato che da parte della stessa Corte ci sia stato un atteggiamento prudente. Secondo Stefano Baia Curioni, vicepresidente del Centro di ricerca Ask (Art, science and knowledge) della Università Bocconi, si tratta di una «specie di provocazione». Un caso simile «si era già verificato tra Finlandia e Grecia un paio di anni fa quando di fronte alla richiesta di rifinanziare Atene, a Helsinki hanno adombrato la possibilità di chiedere a garanzia il Partenone per un importo di 300 miliardi», strada che poi non è stata percorsa.

La provocazione può avere due valori: «Aprire un dibattito sulla valutazione della riserva culturale implicita di un Paese, sul modo in cui vengono valutati gli Stati e la loro solvibilità; spiegare la natura del patrimonio, spesso considerato solo come bene economico mentre il suo rapporto con lo sviluppo passa dalla capacità di contribuire a formare capitale sociale, cioè la comunità politica di un Paese». Ecco dunque la funzione identitaria del patrimonio culturale più volte sottolineata con forza da Salvatore Settis, che ha diretto a Los Angeles il Getty Research Institute e a Pisa la Scuola Normale Superiore ed è presidente del consiglio scientifico del Louvre. Capitale «economico» e capitale «sociale» possono diventare alterni punti di partenza per rispondere alla domanda: è possibile che l’Italia, in un’ipotesi «greca» di default, venda quadri, musei, siti archeologici o singoli «reperti»? Insomma: si può ragionevolmente «temere» o «auspicare» o mettere in conto che anche da noi si possano aprire casi come quelli della «storica» città Usa dell’auto o del Portogallo?

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