Il 9 maggio ricorreva il 38esimo anniversario dell’uccisione di Peppino Impastato da parte della mafia. Nel corso degli anni la sua storia ha iniziato a essere conosciuta in tutta Italia, prima grazie al film I cento passi, del 2000, e ora grazie alla fiction Rai dedicata alla madre, Felicia Impastato. Ma ciò su cui vorremmo soffermarci è un aspetto messo in luce in un articolo di Giorgio Vasta per l’edizione palermitana di Repubblica, che si concentra sull’operazione di “rinascita identitaria” operata da Peppino Impastato (e poi da Felicia) per sfuggire a meccanismi e automatismi che, quando cresciamo in un determinato contesto, dopo un po’ di tempo non sono più attorno a noi, bensì in noi. Nel caso specifico si tratta della cultura mafiosa che, entrata in famiglia a causa dei legami di Luigi Impastato (padre di Peppino, di cui Felicia non era a conoscenza prima del matrimonio), è diventata parte della quotidianità. Certe cose non si dicono, certe cose non si fanno.

Questa storia mostra che nel rispettare leggi e regole non scritte che ci vengono imposte dall’esterno, diventiamo soggetti che contribuiscono a perpetrarle, a fortificarle, anche se magari nella nostra coscienza le rifiutiamo nettamente. Ciò che ha fatto Peppino, che contribuisce a rendere la sua storia esemplare oltre che emozionante, è stato decostruire il concetto di “sicilianità” acquisito dal suo stare in famiglia e dal vivere in un comune come Cinisi, dove le logiche mafiose condizionavano ogni aspetto della vita in comunità. Fatto questo, egli ha ricostruito una nuova “sicilianità” basata su valori diversi, quali la legalità, la giustizia, il rifiuto del compromesso, del silenzio per il quieto vivere. Il fatto che in tutto questo Peppino Impastato abbia abbracciato idee politiche di estrema sinistra rappresenta a nostro avviso sono un aspetto a parte in questo discorso, che quindi non commenteremo.

«Un puro e semplice adattarsi all’ambiente poteva essere considerato, per Peppino, automatico ed elementare – scrive Vasta –: persino inevitabile, l’unica direzione in cui procedere. E invece tra la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60 accade qualcosa che non solo non ha a che fare con la manutenzione-perpetuazione delle radici, ma si configura come una loro reinvenzione. Come se l’Impastato adolescente si fosse messo nelle condizioni di scegliersi una nuova origine. Non è possibile sapere con certezza che cosa determinò l’abiura e il drastico cambiamento di rotta; fatto sta che a partire dai quindici anni Peppino si allontana dal padre, prende a militare nell’area del Psiup di Cinisi, fonda L’Idea Socialista, partecipa con Danilo Dolci alla Marcia della protesta e della pace e acumina il suo strumentario analitico, dando luogo a un processo di “sradicamento” culturalmente esemplare; un’autocritica – che è al contempo una critica della realtà – in gran parte agita attraverso il linguaggio».

Come sottolinea Vasta, ciò che dà valore alla ribellione di Peppino è soprattutto il suo opporsi non tanto a un sistema di valori e dinamiche proveniente dall’esterno, che a un certo punto egli ha deciso di rifiutare; la vera ribellione è quella contro quella parte di sé che ha già accettato, nel corso degli anni, in ogni gesto quotidiano, quel sistema, e col suo agire lo incarna e ne è parte a tutti gli effetti. Questo, aggiungiamo noi, è anche l’aspetto più importante della sua lezione. Spesso il nostro lamentarci di ciò che non va si ferma al commento indignato nella chiacchiera tra amici, di fronte all’ennesima notizia inaccettabile o anche quando ci troviamo in situazioni che ci fanno essere molto critici nei confronti del nostro Paese. Ciò che spesso manca è però una vera ribellione verso certi meccanismi, perché tendiamo a evitare un processo di analisi e di autocritica che ci farebbe giungere alla conclusione che rifiutare certe dinamiche vorrebbe dire rinunciare a una parte di noi stessi.

Decostruire e ricostruire la nostra personalità, come ha fatto Peppino Impastato, è un processo rischioso ma necessario se si vogliono ottenere cambiamenti reali per il Paese. Viene in mente il richiamo all’impegno e alla responsabilità della Canzone del Maggio di Fabrizio De André (ispirata a un canto francese contro la guerra), quando dice: «Anche se voi vi credete assolti / siete lo stesso coinvolti».

Il costante richiamo da parte della politica alle “radici” (territoriali, culturali, identitarie) rischia di essere un freno alla capacità di analisi e di azione nei confronti degli aspetti della realtà che vorremmo cambiare, e verso i quali tendiamo a delegare ad altri l’impegno, mentre noi implicitamente li accettiamo e li rendiamo parte di noi. Ma dall’altra parte delle radici, sottolinea Vasta, ci sono i rami: «Per riuscire a fissare il nemico negli occhi occorre per prima cosa guardarsi allo specchio e fermarsi a comprendere chi si è stati e chi si è, immaginando che oltre alle radici fameliche che tutto divorano ci sono i rami, che potranno anche essere fragili ma tendono naturalmente ad allungarsi verso l’alto: verso quell’altrove dove ognuno può correre il rischio di decidere chi vuole essere».

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