Da alcuni anni, forse decenni, la politica italiana è ossessionata dall’avanzare del Nuovo. Dalla fine della Prima Repubblica, qualunque proposta di leadership che si sia affacciata nel mondo politico si è sentita in obbligo di proporsi come la rottura con il passato. Rinnovamento, cambiamento, svolta, per arrivare al più recente (ma ormai consumato) rottamazione, sono state le parole che hanno caratterizzato la vita politica italiana, almeno in teoria.

Nel frattempo, il cosiddetto “Paese reale” restava immobile, da tanti punti di vista, e anno dopo anno, leader dopo leader, tutto questo Nuovo veniva fagocitato e masticato. Il sistema politico-mediatico ne erodeva pian piano il vestito, mostrando che al di sotto c’era la solita vecchia politica. O comunque era quest’ultima a prevalere, anche quando le intenzioni erano buone.

Sono dinamiche che ha cercato di cogliere il giornalista Marco Damilano nel suo ultimo libro, Processo al nuovo, edito da Laterza. Il suo testo arriva a parlare anche della politica recente (il che probabilmente lo renderà, molto presto, vecchio), fino a toccare le elezioni francesi dei giorni scorsi. L’ultimo Nuovo che si è visto sulla scena è infatti il presidente francese Emmanuel Macron, che Damilano trova «il più simile ai modelli italiani. Ha lasciato il governo socialista come Mario Segni disse addio alla Dc nel 1993. È entrato nella competizione senza un partito ma con un movimento, come Silvio Berlusconi nel 1994. È un uomo di establishment finanziario ed economico, convintamente europeista, un progressista di centro, né di destra né di sinistra, come provò a essere (e non riuscì) Mario Monti nel 2013. È giovane, più di Renzi. Ed esprime una carica anti-partito, come Grillo. Si è insomma presentato sulla scena come il prototipo del nuovo politico, il politico del Nuovo» (gli estratti che pubblichiamo sono presi dal sito dell’Espresso).

Seppure abbia in sé molti elementi di novità all’interno del panorama francese (il suo partito si pone comunque oltre i classici schieramenti di centrodestra e centrosinistra che si sono alternati al potere per decenni), Macron differisce dalle esperienze italiane in quanto non pare ispirato dalla furia iconoclasta che ha animato i Nuovi italiani (Berlusconi, Grillo, Renzi). «Solo in Italia l’irruzione in scena delle leadership personali ha coinciso con il crollo di tutte le altre infrastrutture. Solo in Italia ogni leader, appena compare sulla scena, richiede di cambiare tutto, di rifondare partiti e istituzioni a sua immagine e somiglianza. Solo in Italia il Nuovo è un progetto politico fine a se stesso. Rimane solo il leader, al più con il suo cerchio magico a fare da contorno, scelto con l’unico criterio della fedeltà: tortelli, gigli o raggi magici che siano».

Nonostante le diverse forme di rappresentanza politica ricercate dai nuovi leader italiani (più di facciata e di marketing nei casi di Berlusconi e Renzi, più utopistiche e di difficile applicazione nel caso della democrazia diretta del M5S), la politica italiana è stata capace di produrre ben poco, al di sotto delle personalità di spicco. «In questo gioco che va avanti da anni – scrive ancora Damilano – sia Renzi sia Grillo hanno perso per strada la loro carica di cambiamento. Proseguiranno a presentarsi come il nuovo, cacciatori di futuro, ma nuovi non sono più. Il Nuovo è smarrito».

Dunque qualcosa possiamo imparare da tutto questo, ossia che il cambiamento è una cosa seria, non è un bene in sé e in quanto tale. Parlare di cambiamento ha senso se gli si dà un contenuto, se se ne riconosce la complessità, e se è condiviso. Ma per queste cose serve tempo, serve agire al di là dei ritmi e dei modi dello spettacolo. Sembra un mondo ormai lontano, al quale non pare possibile tornare senza rischiare di passare per uomini e donne del passato, incarnazione del Vecchio. Resta, secondo Damilano, la possibilità che emergano personaggi di frontiera, difficilmente incasellabili. Personalità di cui non si vedono possibili esponenti all’orizzonte, purtroppo, ma è bello sperarci. «Dopo gli uomini del Nuovo, per salvare e difendere le innovazioni serviranno gli uomini della transizione, gli “eroi della ritirata”, personaggi alla frontiera tra il vecchio e il nuovo, destinati all’incomprensione e non spaventati dall’impopolarità, disposti a rinunciare a qualcosa di se stessi e della loro narrazione. Uomini del ponte, alternativi alla richiesta di uomini forti che avanza in Occidente, e anche in Italia, figure che in una situazione di crisi non scommettono sull’individualismo, sull’atomismo, sulla rabbia dei singoli che si sentono abbandonati e lasciati soli, ma che al contrario partecipano a puntellare il tessuto che tiene insieme una società. È questo il nuovo che serve».

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