Andiamo dritti al dunque: visto che c’è e ci sarà sempre, almeno regolamentiamola. Sui giornali ogni giorno ci sono notizie di perquisizioni e arresti relativi a traffici illegali legati alla prostituzione. Giri che fomentano la malavita, lo sfruttamento, facendo appello alla disperazione, alla mancanza di alternative. Chiunque di noi inorridisce quando vengono a galla episodi di segregazione, di ricatti psicologici volti a terrorizzare la vittima affinché sia costretta a fare ciò che non vuole, e a non denunciare. Poi si riesce a sgominare una banda, a bloccare un piccolo capillare mentre nelle arterie dello sfruttamento il traffico scorre roseo.

«Non è vero, non sono tutte costrette. Alcune (e alcuni) sono ben contente di farlo, e di essere retribuite». È la solita argomentazione, vecchia quanto il mestiere più antico del mondo. «Vanno punite anche loro, quelle donne dai facili costumi, perché guadagnano da un mestiere che fanno con piacere». Scusate, ma di solito quando una serie di professionisti forma una categoria, a un certo punto scattano le tutele, non le multe (o la reclusione). Non sarebbe giusto che chi lo fa per mestiere, come scelta consapevole, sia messo nelle condizioni di farlo in completa sicurezza legale e sanitaria? Non sarebbe meglio sradicare la vergogna dello sfruttamento della prostituzione facendole una sana concorrenza legale?

«Non si fa». È l’altra argomentazione, mai fuori moda, quella etica. “Vendere il proprio corpo” è sbagliato, punto. Ma scusate, indossare un completo intimo e farsi fotografare in cambio di soldi per promuovere quel prodotto non è “vendere il proprio corpo”? Lo è. Ma siccome non c’è rapporto sessuale il soggetto non viene chiamato prostituta, gigolò o altri epiteti poco carini, bensì testimonial. O ancora farsi fotografare senza nulla addosso per una rivista o un calendario, non è “vendere il proprio corpo”? Lo è. Il rapporto non è consumato, ma i riferimenti sessuali sono espliciti e continui in ogni ambito della moda, della pubblicità, della stampa patinata. Solo che invece di comprare un rapporto con la modella -il modello, l’attrice, l’attore o chiunque sia- se ne acquista una rappresentazione che allude esplicitamente alla sfera sessuale. Magari anche un po’ perversa, se fa l’occhiolino ad alcune devianze della sfera intima. Ma qui il fatto viene accettato.

Tornando alla prostituzione vera e propria, perché non metterla in regola, invece di limitarsi a combatterla con le manette? I modelli da cui prendere spunto ci sono, non sono neanche così lontani, si va dall’Olanda alla Svizzera. Regolamentare vuol dire tutelare chi esercita la professione, ma anche, diciamo così, l’“utente”, perché si potrebbe spostare l’attività dalle strade a luoghi appositi, imponendo stringenti norme igieniche e un monitoraggio sanitario di tutti i soggetti coinvolti. E poi, venendo alla parte più venale, regolamentare vuol dire far emergere un mercato sommerso, il che si traduce in quella parola che tanto piace all’erario: tasse. Da un lato un trattamento contributivo per chi esercita la professione parificato a quello dei normali lavoratori, dall’altro una regolare destinazione di aliquote allo Stato, come avviene in qualunque altra attività economica.

Quali sono i contro? A dispetto del dilemma etico (e un po’ bacchettone) di sdoganare una professione che comunemente si ritiene di condannare, sarebbe l’occasione per una “liberazione sessuale” che in Italia non è mai avvenuta. Da non intendere, sia chiaro, come induzione alla lascivia e all’abbandono nel piacere, ma a un rapporto più consapevole e rilassato col proprio corpo, le proprie sensazioni, le proprie relazioni intime. In ogni caso, la si pensi come si vuole, regolamentare la prostituzione porterebbe molti più vantaggi rispetto ai costi che stiamo sostenendo per combatterla con le abituali modalità da cowboy contro indiani.

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