In una serie di quattro articoli dedicata al futuro dell’Unione europea (pubblicata su Presseurop.eu), diverse testate provano ad analizzare gli equilibri attuali, le scadenze in arrivo, le possibili vie d’uscita da un sistema di governo comunitario che non sta funzionando. Il primo, tratto dal rumeno Adev?rul si sofferma sul rinnovo delle cariche istituzionali associato alle elezioni europee che si svolgeranno nel 2014. Prima di entrare nel merito di presidenti uscenti e candidati, l’analisi verte sullo scetticismo suscitato in molte persone dalla crisi economica e dalla conseguente dimostrazione di incapacità di governo da parte della classe politica in carica ai vertici dell’Ue. Da qui la previsione secondo cui «possiamo fin da adesso aspettarci l’arrivo di qualche piccolo partito euroscettico o addirittura antieuropeo, probabilmente con l’obiettivo comune di creare una minoranza di blocco nel Parlamento europeo».
Non è più tenero il Financial Times quando parla di riforme in atto nei diversi Paesi, in particolare Italia, Irlanda e Ungheria. Pur riconoscendo qualche merito ai capi di governo sulle intenzioni di cambiamento, la testata londinese giudica insufficienti gli interventi in programma (e per la verità in Italia attesi da molti anni, durante i quali molti governi li hanno promessi senza metterli in pratica): «La cosa più utile che si potrebbe fare in Italia è varare un sistema di partiti politici riformati che smetta di mandare in parlamento, elezione dopo elezione, centinaia di avvocati e rappresentanti di interessi costituiti. Questi legislatori sono lontanissimi dagli elettori che li hanno scelti, ma sono incredibilmente abili nel togliere la sostanza stessa della liberalizzazione dalle leggi che sono state studiate per portare avanti la riforma economica e migliorare la competitività. Procedere a una revisione del sistema elettorale ed emendare i poteri delle due camere del parlamento potrebbe portare in effetti a governi più stabili. Ma è inverosimile che questi cambiamenti possano sbaragliare i privilegiati sabotatori delle riforme che oppongono resistenza al rinnovamento economico in Italia. Se un vento di rinnovamento non soffierà sulla cultura politica della nazione, le riforme costituzionali proposte potrebbero semplicemente compattare il blocco antiriformista nella camera bassa rafforzata ex novo».
Dal Sole 24 Ore un’analisi invece sulla forma di governo dell’Unione, in cui si critica apertamente la scelta intergovernativa che ha portato agli scarsi risultati attuali, invitando a un ripensamento che si basi su principi diversi: «Il futuro dell’Ue è appeso ai risultati di quella o di quell’altra scadenza elettorale nazionale, mentre la disoccupazione cresce, la diseguaglianza si accresce e l’Europa conta sempre di meno nel mondo. Invece di recuperare il senso politico dell’integrazione, quelle leadership politiche continuano nel gioco delle reciproche accuse. […] È un dibattito preoccupato di difendere gli interessi di breve periodo, da un lato, e di celebrare la retorica federalista, dall’altro lato, che ha portato l’Unione al suo stallo. Non si può scegliere tra la tecnocrazia e l’utopia. Occorre ripartire dai fatti per ridefinire una strategia di integrazione capace di trovare un equilibrio più adeguato tra gli interessi degli Stati e quelli dei cittadini. Ciò di cui abbiamo bisogno è una leadership politica che vada oltre le due strategie, perché consapevole che un’unione intergovernativa non potrà mai diventare un’unione politica, ma anche che un’unione federale non coincide con uno stato federale».
In quale direzione andare prova a suggerirlo lo statunitense Foreign Affairs, e tale direzione è, secondo gli autori dell’articolo, la Svizzera: «Con decenni di graduale integrazione alle spalle, e avendo davanti un mondo in forte accelerazione, l’Europa deve portare a termine la sua transizione fino alla piena unione politica in termini di anni e decenni, non di secoli, ma questa transizione può nondimeno seguire in parte il modello svizzero. […] Come la Svizzera, in altre parole, l’Europa necessita di un governo centrale forte ma dai poteri limitati, che sappia accogliere quanta più diversità locale possibile. Anche se un’Europa federale deve essere aperta a tutti gli stati membri dell’Ue, i progressi verso di essa non dovrebbero essere intralciati perché alcuni non sono ancora disposti ad arrivarci, ma d’altra parte non glielo si dovrebbe neppure imporre dall’alto. L’opinione pubblica di ciascuno stato dovrà decidere se è nel suo interesse a lungo termine unirsi alla federazione o no. È una pura illusione credere che una forte unione politica possa costruirsi sul debole e vago impegno risultante da trattati in via di modifica. La sua premessa di fondo deve essere un mandato popolare».